venerdì 31 agosto 2012

Rita Pani sui minatori sardi.

Ma dei minatori non dici nulla?
- Rita Pani - da "Informare per resistere". Oggi mi ha chiamato un amico, che non sentivo da un paio d’anni e mi ha chiesto come mai non avessi detto nulla sulla situazione della mia terra, del Sulcis e le sue miniere. Gli ho detto che forse era meglio così, perché tanto si era espresso anche Napolitano. Poi a dire il vero, io del mio territorio ne ho scritto su due libri, che però non avevano sfumature di colore, così che potessero restare a memoria. E non si trovano, i miei libri all’Autogrill. Ma io che ne penso del sindacalista che si taglia il polso in TV? Male ne penso. Molto male. Lo scopo lo ha raggiunto, e di questo dobbiamo renderne merito: ora in Italia si sa che esiste anche il Sulcis, ma a quale prezzo? Al prezzo di sempre, quello della svendita, della colonizzazione, dello sfruttamento e del successivo abbandono. È facile che per un po’ gli operai della Carbosulcis conserveranno il loro posto, perché l’elemosina al Sulcis l’hanno sempre fatta, da quando c’è la storia, ma un’elemosina non è per sempre, non costruisce, non fa radici. Ma sono sotto con l’esplosivo. Lo dicono in TV con l’aria di signorine molto preoccupate. E quindi? Fai saltare la miniera con te dentro? Bravo coglione che non sarai né martire né eroe, o solo eroe per la moda di Facebook, che durerà fino al prossimo cagnolino da salvare. L’esplosivo è cosa seria e doveva stare fuori dalla miniera, doveva far saltare chi col carbone, negli anni, le mani non se le è mai fatte nere, ma verdi di danaro. Lavoro! Lavoro! Lavoro! Sì, Lavoro. Quale? Quello che i sindacati regalavano ai loro parenti quando si ventilava l’ipotesi che le ditte facessero ricorso alla Cassa Integrazione. Così lo si voleva il lavoro, che durasse due giorni e poi si fosse assistiti, mentre i lavoratori quelli veri sputavano sangue a pulire gli altiforni o si bucavano le carni con la soda caustica, lavorando per ditte esterne, quegli appalti e subappalti, e sub subappalti. Perché i sindacalisti nel Sulcis – ammettiamolo – sono stati davvero la mosca sulla merda per anni e anni, e francamente spero oggi non sia più così. Rita, Compagna, ma non dici nulla delle miniere? Sì, dico che mio nonno c’era già nello sciopero del 1920, ma aveva senso. Loro esigevano di essere riconosciuti come lavoratori. Loro aprivano la strada a quello che sarebbe stato dopo il 1970 e quello che ci ha consegnato la storia, che da noi in Sardegna è sempre stata scritta in maniera diversa da come si scriveva in Italia. Leggo che si vuole la riconversione della miniera, e allora dico che quelli come mio nonno, se potessero tornare dovrebbero prenderci a schiaffi tutti quanti. I minatori del Sulcis dovrebbero chiedere di essere riconvertiti loro, e non la miniera. Dovrebbero esigere il lavoro laddove si potrebbe investire per costruire in un regime finalmente di autarchia, in un territorio che tanto potrebbe dare se rispettato per le sue peculiarità. Finirà con la stessa elemosina di sempre, che darà la sensazione d’aver avuto un minimo di respiro, mentre sempre i soliti noti, con le loro grandi aziende arriveranno a colonizzare quel poco che ci sarà ancora da sfruttare. Tutta la mia solidarietà alle persone disperate che in nome di quella disperazione agiscono, ma anche la speranza recondita che la lotta possa portare ad una nuova e vera rinascita. Per tutta la mia isola. Rita Pani (APOLIDE SARDA)

May you rest in peace, caro Martini.

“Un tempo avevo sogni sulla Chiesa. Una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà, una Chiesa che non dipende dai poteri di questo mondo… Una Chiesa che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto. Una Chiesa che infonde coraggio, sopattutto a coloro che si sentono piccoli o peccatori. Sognavo una Chiesa giovane. Oggi non ho più questi sogni. Dopo i settantacinque anni ho deciso di pregare per la Chiesa.”(da Conversazioni notturne a Gerusalemme di Carlo Maria Martini)
Un vaso d’olio profumato. Omaggio al cardinal Martini. Pubblicato il 31 agosto 2012, da Luigi Caricato. Quest’oggi si è levato in cielo una figura tra le più solide e autorevoli della Chiesa cattolica. Anche se la morte è inevitabile, è sempre un dolore la scomparsa di una guida morale che ha tenuto sempre alto il senso religioso e umano. In omaggio all’ex arcivescovo di Milano, la città in cui vivo sin dal 1984, vi riporto un brano in cui l’olio ha una sua centralità. «Mentre Gesù si trovava in Betania, in casa di Simone e il lebbroso, gli si avvicinò una donna con un vaso di alabastro di olio profumato molto prezioso, e glielo versò sul capo mentre stava a mensa. I discepoli, vedendo ciò, si sdegnarono e dissero: “Perché questo spreco? Lo si poteva vendere a caro prezzo per darlo ai poveri!”. Ma Gesù, accortosene, disse loro: “Perché infastidite questa donna? Essa ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi, me, invece, non sempre mi avete. Versando quest’olio sul mio corpo lo ha fatto in vista della mia sepoltura. In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei”». Ricordo ancora quando – tempo fa, nel giugno 2010 – lessi sul quotidiano “Avvenire” un commento del cardinal Martini al riguardo. Vi riporto alcuni stralci. (…) Il “gesto” di questa donna appartiene (…) non tanto alle “opere efficaci” bensì alle “opere belle” che qualificano la persona, così come le “Beatitudini” sono atteggiamenti vissuti dalla persona. Nella “simbologia” dell’episodio ci è facile anche leggere quale sia la “bellezza” personale dell’”opera” della donna. È “bella” perché è “inaspettata”, anzitutto. Viene nel mezzo del “banchetto” a dare un “profumo” incredibile a tutta la sala, senza che nessuno lo prevedesse. È un “gesto inatteso” eppure dovuto a un “ospite illustre”. Un’”opera inaspettata” quindi, e originale, “creativa”. Ha la “bellezza” dei “gesti umani” che non sono semplicemente adempimenti di “leggi” oppure risposte a esigenze di “efficienza” ma sgorgano dall’”intimo” della persona che li compie. Se la donna avesse chiesto consiglio le avrebbero detto che era “inutile” versare quell’olio, che non ce n’era bisogno. È anche un “gesto gratuito”, e totale, “esaustivo”. Gesù nel “brano parallelo” dell’”Evangelista” Marco spiega: «Questa donna ha fatto quello che ha potuto» (cfr. “Mc 14,8″). Ci richiama così l’”obolo” della vedova che, pur avendo fatto niente dal punto di vista dell’”efficienza”, ha però fatto tutto perché ha espresso se stessa. Infine, quest’”opera” è “bella” perché è “profetica”: «in vista della mia sepoltura». I “discepoli” non avevano mai capito, benché Gesù l’avesse loro ripetuto, che «il Figlio dell’uomo doveva essere tradito, essere ucciso, e poi risorgere». La donna l’ha compreso e il suo è un “gesto cristiano” perché contiene una “profezia” della “morte” e “Risurrezione” del Signore. Possiamo anzi dire che la donna, con quel “gesto”, entra nella “morte” e “Risurrezione” di Gesù, fa un’”opera battesimale”. E chi è il “cattivo discepolo”? Colui che non capisce questi “valori”, che li critica, che va alla ricerca di “gesti clamorosi”, dalle “risonanze grandiose”. Mentre invece il “profumo” del “balsamo” si perde nella “oscurità” della casa di Simone. “Cattivi discepoli” sono coloro che non comprendono quella “bella opera” che è in ogni “gesto”, quella “bella opera” che il “Padre Celeste” vede e che vedono gli uomini sensibili al fascino del “profumo” delle “Beatitudini evangeliche”. Sono “opere” che rendono lode al “Padre” perché sono “irrefrenabili”, mentre di tutte le altre “opere” si può supporre sempre una “seconda intenzione”, un motivo non pienamente “disinteressato”. Le “buone opere” delle “Beatitudini” sono le “opere cristiane” – “kat’exochèn” – senza alcuna aggiunta o “smarginatura” o “sottolineatura”. E i “poveri”? Che dire dei “poveri”? I cosiddetti “discepoli” sono qui “fuori strada” e in realtà non si preoccupano dei “poveri”. Se ne preoccupa il «vero discepolo» che è la donna, perché i cosiddetti “discepoli” oppongono erroneamente il “servizio” reso ai “poveri” all’adesione “personale” a Gesù che sta per morire, quasi si dovesse scegliere tra le due “opere”. (…) Come quei “discepoli”, anche noi vediamo la soluzione del problema dei “poveri” nel “denaro”, in una “efficienza”, e non nella “dedizione-amore”, da cui nascerà il “servizio” ai “poveri”. Gesù difende e loda la donna, così come ha difeso Maria dalle “insinuazioni” di Marta che accusava la sorella di perdere tempo ascoltando la “Parola” e di non “servire”. Card. Carlo Maria Martini

mercoledì 29 agosto 2012

Draghi barcolla.

Europa flop, Bce: altro uppercut di Weidmann, Draghi barcolla.
di: Luca Ciarrocca, direttore di Wall Street Italia, Pubblicato il 29 agosto 2012. Wrestling feroce tra rigoristi (Weidmann) e soft (Draghi) alla Banca centrale europea. La posta: una moneta in circolazione ma in via di default, un'Unione dove la seria Germania non si accollera' mai i debiti dei paesi PIIGS irresponsabili. Monti non puo' correggere in pochi mesi 20 anni di malgoverno in Italia e le recenti devastazioni perpetrate dai governi Bossi/Berlusconi/Tremonti. Alla Bce parlano, e litigano. Se nel board della Federal Reserve americana ci fossero differenze di opinioni cosi' pesanti come quelle che si riscontrano tra il presidente della Bundesbank (azionista di riferimento della Bce) Jens Weidmann e il presidente della Banca centrale europea, l'italiano Mario Draghi, il dollaro sarebbe oggi "in the toilet", come dicono i trader a Wall Street. La mancanza di idee chiare e' benzina sul fuoco, per la speculazione. Invece in Europa, e per la sua moneta circolante ma in via di default che rappresenta un'Unione in crisi drammatica, non accade per ora quasi nulla. Lo spettacolo dei vertici europei e' di fatto patetico: riunioni dopo riunioni, sempre a due, Merkel/Hollande, poi Merkel/Monti, etc etc mai a 17 o 27, chiacchiere, proclami, dichiarazioni, da decenni la solita solfa sugli Stati Uniti d'Europa e il sogno europeo, e poi eurobond, debiti, patto fiscale, ESM, e ancora bond. Ma chi credono di continuare ad imbrogliare, mentre il cosidetto Vecchio Continente (nome appropriatissimo) annaspa in recessione e la gente e' gelata dalla mancanza di prospettive? In un'Europa devastata dall'esplosione dei debiti sovrani dei paesi PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) e dalla totale assenza di crescita e lavoro, in questo scenario vi sembra che la commedia assurda delle dichiarazioni e degli incontri bilaterali sia ulteriormente tollerabile? No, non lo e'. Ma la cosa piu' incredibile e intollerabile e' che non c'e' mai nessun dibattito politico, non se ne parla, il Parlamento - in Italia - e' morto e seppellito, esautorato, 10 uomini (e una donna: Angela Merkel) decidono i destini politici e sociali di mezzo miliardo di cittadini europei che, a questo punto, comincio a pensare siano solo "sudditi imbecilli" che si meritano cio' che hanno. Del resto, se ci fosse un altro modo, non ce lo lascerebbero fare, vero? In questo orizzonte lo show mediatico, il wrestling feroce tra rigoristi (Jens Weidmann) e soft (Mario Draghi) all'interno della Banca centrale europea, va avanti con un crescendo sospetto. La posta in gioco: l'euro, una moneta in circolazione in molti paesi ma in via di default, perche' espressione di un'Unione Europea dove la seria Germania e' ovvio non si accollera' mai i debiti dei paesi PIIGS irresponsabili. Per quanto riguarda il nostro paese, il premier italiano, ex tecnico ormai politico, Mario Monti non puo' correggere in pochi mesi 20 anni di malgoverno in Italia e soprattutto le piu' recenti (diciamo dal 2008) devastazioni perpetrate dai governi corrotti e impresentabili ai partner e alleati (europei e occidentali) come quelli che facevano capo al trio maledetto Bossi/Berlusconi/Tremonti. Il fatto che Berlusconi stia pensando a ripresentarsi solo perche': a) e' depresso avendo perso il potere; b) ha paura di nuovi guai giudiziari; cio' e' simbolo e quintessenza della nostra arretratezza, come paese, in termini di dignita' civile collettiva e politica, e di come non risolveremo mai i nostri problemi di nazione, visto che continuiamo a tollerare una razza indegna di politici, mafie e caste (ci mettiamo anche la finta opposizione consociativa e spartitoria del Pd, tanto per zittire quei lettori faziosi che parlano ancora di "comunisti" e altre baggianate destra/sinistra facenti solo il gioco dei "poteri forti"). Ma torniamo all'Europa e al tema del titolo di questo pezzo (scritto come ovvio a caldo in pochi minuti) "Bce: altro uppercut di Weidmann, Draghi barcolla". Allora: il soft/italiano Mario Draghi ha pubblicato oggi (grazie ai ghost-writers di Banca d'Italia) sul quotidiano tedesco (di sinistra) Die Zeit, un editoriale con tutte le sue considerazioni da presidente Bce, in stile bluff, a cui ci ha abituato nelle ultime settimane. Appena circolate sul web traduzioni e interpretazioni dell'Opinione di Draghi, ecco che il boss della Buba, Jens Weidmann, fornisce subito un'intervista allo stesso Zeit online, ribadendo la linea intransigente anti-Draghi e sostanzialmente anti-Italia della Germania. Inutile fare l'esegesi dell'intero testo dell'intervista di Weidmann, anche perche' la noia attanaglia ormai tutti, riguardo a queste vicende da elite tecnocratiche. Pero' mettiamo in evidenza un passaggio fondamentale, quello sulle differenze tra Fed e Bce, e sul perche' la prima e' autorizzata a monetizzare i bond e a immettere tutta la liquidita' che vuole nel sistema, mentre la seconda non puo'. Dice Weidmann (avvertenza: al posto di paese/i leggere [Italia]): "La Fed non sta operando il salvataggio di un paese strozzato dalla mancanza di liquidita'. Poi, la Fed non sta distribuendo rischi sui contribuenti di una singola nazione. Sta acquistando bond emessi da un governo centrale che ha un rating creditizio eccellente. Non tocca i bond della California o i bond di altri stati americani". "Cio' e' completamente differente da cio' che abbiamo in Europa" continua il presidente della Bundesbank. Ed ecco l'uppercut, proprio al mento di Draghi, non per metterlo al tappeto, ma per stordirlo un po': "Quando le banche centrali dell'eurozona acquistano i bond sovrani di singole nazioni, questi bond finiscono nel bilancio dell'eurosistema. Ma alla fine, i contribuenti di tutti gli altri paesi devono assumersene la responsabilita'. Nelle democrazie - conclude Weidmann - sono i parlamenti che dovrebbero decidere su una tale, assoluta e profonda collettivizzazione dei rischi, e non la banca centrale". Capito, mr. Mario Draghi? Ah certo, sul finale non si puo' non notare come il duro e rigorista Weidmann ci parli, lui, un banchiere tedesco, di democrazia e parlamenti. Robe da matti! Ma ci rendiamo conto del livello a cui siamo arrivati, in quest'Europa fasulla sulla via del collasso apocalittico e della recessione sociale? E qui in Italia, i politici di una maggioranza parlamentare facente capo alla falsa triade ABC (Alfano, Bersani, Casini) posta ormai a sudicio zerbino di lobby e tecnocrati non-eletti e non votati da nessuno, evitano di dibattere alcunche' e invece tramano, trescano e pensano esclusivamente a quali trucchi usare per entrare alla Camera e al Senato alle prossime elezioni, passano carte, eseguono gli ordini, battono i tacchi, certificano dispacci da Bruxelles e assistono impotenti al balletto insulso degli incontri bilaterali in sede Ue, sponsorizzati dalle banche. Infine, c'e' un ex premier ricco ma sputtanato che vuole riscendere in campo (sembra la scena della vasca da bagno di Fatal Attraction) solo per pararsi il *BLIP*. Povera Italia, povera Europa. Siamo finiti. Nessuno scende in strada a sparare o prendere ostaggi perche' c'e' ancora troppo benessere, troppi soldi rubati per anni, troppo grasso accumulato dai ricchi e corrotti, troppe cricche che proteggono i loro interessi indicibili, in questo paese. Ma se noi di WSI, che siamo civili e moderati, approdiamo ormai a posizioni cosi' "radicali", che cosa succedera' nella nazione, sul territorio, tra la gente normale che soffre davvero, quest'autunno e nel 2013?

La caduta degli schei.

La caduta degli "schei" DI GABRIELE POLO, da il manifesto.
L'ultimo colpo è la scomparsa della Sisley. La pluridecorata squadra di volley - 9 scudetti, 4 coppe dei campioni e molto altro - che dal 1987 fino a ieri sembrava declinare il «miracolo a nord-est» nel binomio sport-sponsor. E simboleggiare una rivincita. Del «piccolo» sul grande, del capitalismo diffuso su quello fordista, dei distretti dinamici sui pachidermici poteri forti. Quel «modello vincente» che negli anni '90 faceva soldi a palate esportando nel mondo merci e successi con la svalutazione competitiva della lira, la grande intensità del lavoro, l'adattabilità commerciale, l'azienda a rete e la diffusione della micrompresa; la mutazione dei contadini in padroncini, i «piccoli, maledetti e fieri» prima decantati dall'indipendentismo dei Serenissimi e poi conquistati dal federalismo bossiano, con tutte le articolazioni politiche e un po' razziste del caso. In un legame sociale che si saldava sul territorio attraverso la famiglia-azienda, la complicità del consumo tra imprenditori e operai, l'anarchia del «lasciateci lavorare» in odio a regole, stato e - soprattutto - fisco. Ora la Sisley, abbandonata dai Benetton ed emigrata invano per un anno a Belluno senza trovare nuove sponde industriali, rinuncia a iscriversi al campionato di A1: scompare la squadra e il simbolo, resta solo un marchio d'abbigliamento. Uno dei tanti. La crisi morde e da queste parti il vero dramma è diventare «uguali» agli altri, scoprire di non essere più «speciali», che il «modello» non esiste più, che se mai è esistito si è fratumato nei mille rivoli della globalizzazione, con l'euro che frena l'export e l'insufficienza del «tirarsi su le maniche». Anche se la percezione della crisi e di una pericolosa inadeguatezza sono dure da digerire: meno 1,6% il Pil previsto per Veneto nel 2012, meno 1,7% quello italiano. Siamo lì e - rabbie a parte - non ci sono grandi segni di reazione. «Lento dimagrimento», sintetizza prudentemente l'ultimo rapporto di Veneto-Lavoro. La rabbia dei padroni Servirebbe una scossa e anche se la Sisley scompare gli industriali di Treviso non rinunciano alla grinta che da qualche parte devono indirizzare. Così Alessandro Vardanega, appena rieletto presidente di Unindustria Treviso - una delle più grandi e attive «filiali» territoriali di Confindustria - arringa i suoi contro il fisco, la finanza, le burocrazie, i politici, i professori al governo. Un anno fa la marcia silenziosa di questi padroni, «contro i poteri sordi», aveva segnalato la crisi definitiva dell'asse del nord, dopo quasi vent'anni di potere; poi, per difendere la Marca (traduzione locale del feudo) dalla pestilenza economica in arrivo, la firma di un accordo-quadro con Cgil, Cisl e Uil che seppellisce i contratti nazionali a favore di quelli aziendali; oggi l'urlo contro la «politica autoreferenziale», «una burocrazia da eliminare», il fisco degli «statalisti» che strozza le imprese e gonfia la spesa pubblica. «Perché - attacca Vardanega - si è drammaticamente inceppato il meccanismo autoregolante basato sul mix di svalutazione, credito facile, nuovi sbocchi commerciali e minor pressione fiscale». È l'ultima versione della questione settentrionale. Più radicale delle precedenti e dagli esiti meno prevedibili. La festa degli anni '90-2000 è davvero finita e ora servono interventi drastici. Il binomio impresa-lavoro deve essere liberato da ogni laccio e qui non capiscono perché la riforma del mercato del lavoro in arrivo sia così minimale e non segua l'esempio trevigiano cancellando i contratti nazionali e i loro rigidi diritti. Perché «la ricchezza si fa in impresa e la fa solo l'impresa», «non c'è tempo da perdere in discussioni politiche». Per essere più efficace, Vardanega mentre parla fa scorrere alle sue spalle le 13 cifre che scandiscono in tempo reale la crescita del debito pubblico italiano. I 1.928 miliardi e rotti lievitano a scatti di 2.700 euro al secondo: non particolarmente originale ma di sicuro effetto. Anche la ricetta per tornare a crescere non è molto fantasiosa: meno tasse, banche più disponibili, la pubblica amministrazione paghi i suoi debiti con le imprese private. E taglio della spesa pubblica, ovvio. Per tutto il resto, per lo sviluppo, ci penseranno loro, le imprese. Che, con tanto lavoro e dipendenti consenzienti, sapranno risalire la corrente. Alla politica chiedono «semplicemente» di non essere d'intralcio e accompagnare questo sforzo. Il governatore leghista Zaia, seduto in prima fila, prova subito a rilanciare: «Fate obiezione fiscale, la regione sarà con voi». Ma il messaggio padano è ormai a scartamento ridotto, la Lega non scalda più gli animi, Maroni e Tosi al massimo possono reinventarsi sul modello della Csu bavarese, una Dc lombardoveneta per amministrare - e trattenere in loco - la ricchezza. Zaia vorrebbe per la regione la parte dell'Imu riservata allo stato. Gli industriali, invece, l'Imu sui tanti capannoni che hanno occupato pianura e valli non vorrebbero proprio pagarla. Anche perché molti vecchi capannoni cominciano a svuotarsi e quelli nuovi vengono innalzati più che altro per diventare garanzie bancarie, gonfiando una bolla immobiliare che prima o poi scoppierà. Perché, come mormora la platea di Unindustria, il problema è che «no xe più schei», non ci sono più soldi. Lavoro impoverito La cosa non è poi così vera, ma certamente per un mondo a memoria contadina abituato a pensare che gli «schei» nascono dalla terra (e su quella terra devono restare o essere consumati), i tempi sono diventati più difficili, i margini si sono ristretti. Di soldi ne girano ancora, ma in maniera più selettiva. Per il lavoro dipendente e per i piccolissimi degli indotti e dei distretti non ce ne sono mai stati molti, nemmeno da queste parti. Con la crisi è saltata anche la garanzia del minimo. La crescita del numero delle imprese (il 90% sono sotto i dieci dipendenti e danno lavoro al 60% del totale degli occupati) si è interrotta e oggi nel nord-est quelle attive sono 650.000, appena 10.000 in più di 15 anni fa, quando i mercati dell'est erano già aperti e la lira spingeva l'export. La demografia d'impresa continua a essere vivace (ogni anno ne nascono e muoiono decine di migliaia) ma dal 2008 la linea ha iniziato ad appiattirsi e nell'ultimo anno il saldo tra aperture e chiusure è stato negativo (meno 1.600). Le esportazioni che crescevano a ritmi percentuali di due cifre fino al 2000, hanno poi frenato per aumentare del solo 0.3% nel quadriennio 2008-2011. Il saldo commerciale resta alto e le due regioni principi del nord-est, Emilia e Veneto, guidano la classifica italiana rispettivamente con 18 e 9,6 miliardi di euro. Ma basta analizzare il mercato del lavoro per visualizzare il «no xe più schei» di marca trevigiana. Nel solo Veneto la crisi ha provocato un emorragia di 80.000 posti di lavoro dal 2008 a oggi, mentre sono aperte situazioni di crisi per altri 20.000 addetti. Si salvano solo la sanità, i servizi sociali e quelli di vigilanza (per una società invecchiata e impaurita), mentre nell'industria è un dramma in tutti i comparti, con la situazione peggiore nel metalmeccanico che perde 23.000 posti. Le ore di cassa integrazione (tra ordinaria, straordinaria e in deroga) sono state 16 milioni nel 2008, 87 milioni nel 2011. Il tasso di disoccupazione, che negli anni '90 era stabilizzato ai livelli endemici del 2-3%, ora è raddoppiato, viaggia attorno al 6%, ancora parecchio distante dal 10-11% delle media italiana, ma pericolosamente in aumento pure qui. Persino le partite Iva sono diminuite e in maniera più sensibile che nel resto del paese: -4% in Veneto, -2% la media italiana. Giorgio Molin, segretario della Fiom veneta queste cifre le conosce bene. Davanti alla Fincantieri di Marghera, scuote la testa e indica l'ingresso: «Guarda lì dentro. Che occasione mancata...». Il lavoro è ridotto al minimo, come in tante altre fabbriche, ma Molin ce l'ha con i dirigenti di una società pubblica che «hanno abbandonato la nave». Perché trascurando innovazione e progettazione, puntando tutto su appalti e subappalti, è stata fatta cassa per qualche anno con le navi da crociera, risparmiando sul costo del lavoro (sempre più precario, con gli indiretti ormai il doppio dei dipendenti diretti), ma oggi la crisi è palese e i primi a pagarne le conseguenze sono proprio i tanti lavoratori precari e immigrati degli appalti. In un manifatturiero già in difficoltà, Fincantieri è ancor più evidentemente un'occasione sprecata, la dissipazione di professionalità e la rinuncia del «publico» a programmare un futuro industriale adeguato ai tempi. Non è una specificità del nord-est questa, non vale solo per Marghera o la vicina Monfalcone. Lo stesso «lamento» potrebbe arrivare da tutti i cantieri italiani, da Genova a Castellammare, da Ancona a Palermo. Ma Molin si arrabbia per la sottovalutazione che il sistema-Veneto ha sempre fatto della grande industria, considerandola un residuo del passato: «Invece le navi in Germania le costruiscono alla grande». Ora che il «piccolo è bello» mostra tutti i suoi limiti - la famosa sottocapitalizzazione delle imprese, la competizione al ribasso, ricerca e innovazione lasciate alla volontà dei singoli - l'assenza di una «mano pubblica» pesa di più. Un sordo ribollire «Di certo quel che manca è una visione», dicono quasi in coro Alfiero Boschiero dell'Ires e Bruno Anastasia di Veneto Lavoro: «Non c'era quando i fatti, le innovazioni, i cambiamenti anticipavano le analisi della politica, del sindacato, dei centri studi. Non c'è oggi, nel ristagno, nella palude». Anche se, osservando bene - sempre inseguendo la strada degli «schei» - da un panorama un po' stagnante e fermo emerge un sordo ribollire, un po' paludoso e grigio, quasi una distesa di geiyser. Perché è vero che non si vedono all'orizzonte nuovi Carraro, Benetton, De Longhi, Del Vecchio - «quelle leadership che segnalano un salto di qualità», aggiunge Anastasia - ma da queste parti ci si muove ancora molto. Anche quando l'eccellenza serve ormai a sopravvivere. Anche se il «movimento» va in ordine sparso e pure contraddittorio, tra nicchie di mercato da inventare, fughe all'estero, soldi sporchi. Anche quando la distesa di geyser produce bolle strane e inquietanti, ronde antitasse che mimano Serenissime polizie in difesa dei «piccoli, maledetti e fieri», teorie economiche che denunciano «il declino occidentale di fronte all'Oriente arrembante», prevedono un domani di povertà e per arginare il peggio decretano che, essendo la crisi economica incompatibile con la democrazia, «bisogna sospendere la democrazia». Lo scopo è sempre lo stesso: ritrovare gli «schei».

martedì 28 agosto 2012

Siamo tutti fassisti?

Grazie Bersani, mi hai fatto scoprire di essere fascista. di Piero Valesio, il Fatto Quotidiano, | 26 agosto 2012.
Devo ringraziare Ezio Mauro e Pierluigi Bersani perché alla mia veneranda età ho scoperto di essere un destrorso forcaiolo, abbastanza volgare, privo di eleganza e di un visione politica. E pure di essere stato inconsapevole oggetto di una sorta di pogrom ideologico: io così destrorso sono stato utilizzato per infiltrare quella parte di campo ‘loro’ (così l’ha definito il direttore di Repubblica nel suo editoriale dell’altro giorno) e spandere su quel sacro suolo il virus della volgarità, del linguaggio becero. Sono stravolto da questa scoperta, io che pensavo di essere tutt’altro, perfino di sinistra. Forse in questa mia zeliggitudine di cui non mi sono mai accorto (nel senso di Leonard Zelig, non del programma di Bisio) chissà quante volte mi sono seduto, gratificato e compiaciuto dall’aver incrociato in due occasioni lo sguardo di Sgarbi, nel Salone Margherita per una serata del Bagaglino. Chissà quanto mi sono scompisciato dal ridere guardando Martufello nei panni di De Mita o il finto Andreotti. Chissà, nel mio essere novello dottor Jeckyll e Mr. Hide, quanto ho trovato affascinante il titolo ‘Ciao ciao culona’ con cui uno dei geni (perché li reputo tali, evidentemente) della stampa berlusconiana ha aperto uno dei suoi giornali all’inizio dell’estate. E non solo: sono pure fascista, l’ha detto Bersani. Perché, lo confesso, reputo che la quasi totalità della nostra miseranda classe politica sia composta da zombie senza qualità che se li avesse scoperti John Landis tanti anni fa (tanto erano sempre li’), col cavolo che se li sarebbe fatti sfuggire per il video di ‘Thriller’. E già che ci sono reputo zombie.2, quelli tipo Renzi che vorrebbero pensionare i loro avi e poi, per dimostrarsi giovani, vanno alla partita con la maglia della loro squadra del cuore. Grazie a Mauro e Bersani ho scoperto la mia vera natura. E vorrei dedicare loro con tanta gratitudine un titolo creato da Michele Serra su quel giornale destrorso, forcaiolo e già che ci siamo un po’ fascista che fu ‘Cuore’. Titolarono rivolto ai portacolori del pentapartito (che mi ricorda qualcosa di attuale ma non so bene cosa) ‘hanno la faccia come il culo‘. E quando loro misero insieme un altro pentapartito loro titolarono: Loro rifanno lo stesso governo e noi rifacciamo lo stesso titolo: hanno la faccia come il culo. Roba da minculpop, senza dubbio.

domenica 26 agosto 2012

No hopes.

Non esistono piromani donna.

USQUE TANDEM?

LETTERA DI FRANCA RAME A MONTI .Da fb.
Gentile presidente Monti,dopo la lettera che le ho inviato il 7 gennaio 2012 ,pubblicata su Il fatto, rieccomi a disturbarla. Speravo tanto in Lei ,con la sua faccia per bene ,ma come diceva Johnson, “ la correttezza di un uomo non è cosa che si possa dipingere sulla faccia di un governante “.Lei è presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana dal 16 novembre 2011 : il suo primo atto d’amore verso il suo popolo fu una mazzata sulla testa dei pensionati . Dopo quasi nove mesi del Suo governo cosa ci troviamo nelle mani ? Nulla o quasi ! LA SITUAZIONE finanziaria è peggiorata di molto. Oggi lo spread sta sfiorando i 500 punti . Tutto è aumentato .Vai nei supermercati e vedi anziani che si aggirano tristemente nei corridoi ,per mettere insieme pranzo con la cena . Boom di vendite : le cosce di pollo . Ma che razza di galline state allevando , con otto zampe ciascuna ? La situazione in Italia dalla mia prima lettera ad oggi è peggiorata di molto : pesante, seria e pure tragica. Imprenditori onesti si impiccano per non poter retribuire gli operai o non pagare i debiti con le banche . Su Repubblica del 14 agosto ho trovato un trafiletto interessante e mi è venuto il desiderio di inviarGlielo : chissa’ che Le venga l’idea di fare quanto propone il giornalista Mark Haddon. Tema : “ I ricchi pagano poche tasse “. Riassunto : lo scrittore d’Oltremanica Mark Haddon dalle pagine del Sunday Times rivolge un appello al premier britannico David Cameron : “ Voglio pagare più tasse ! “ Si domanda lo scrittore : “ Ma perché alla gente che come me , che guadagna milioni di sterline all’anno ,non viene chiesto di pagare di più , contribuendo così a ridurre i tagli della spesa sociale ? E’ immorale che io, in proporzione, paghi meno tasse della mia governante “. QUI DA NOI IN ITALIA a parte qualche raro balbettio di industriale subito zittito e sfottuto, in alcuni casi denunciato alla pubblica opinione “ come persona con problemi psichici “ , ci si continua a raccontare che il problema non è quello . Ne siete certi , cari tecnici sapientoni ? Basta cliccare su www.italiaora.org per vedere apparire qualcosa di sorprendente : in rosso un contatore gira vertiginosamente accanto alla voce “ debito pubblico “. La cifra ,nella frazione di un secondo in cui scrivo ,è di 1.961.444.900.761 euro ; soldi spesi in interessi sul debito pubblico , euro 63.730.900; soldi evasi al fisco , euro 187.789.133.774 . Queste cifre , se ci andrete ora , le troverete aumentate ,e nemmeno di poco . Ho davanti agli occhi la visione dei nostri parlamentari che mangiano come papponi in piatti d’oro sopra le nostre teste ! Non se ne può più !.

All'armi son fassisti!

dal blog di Beppe Grillo.
"Fassissti! Fassissti del web" ha gridato Gargamella Bersani. "Venite qui a darmi dello zombie se avete il coraggio". Fatemi capire, se Bersani viene accomunato a uno zombie politico (tesi supportata dalla sua storia passata e recente) è un insulto gravissimo, se invece Bersani considera il MoVimento 5 Stelle alla pari del nuovo Partito Nazionale Fascista è normale dialettica. A Bersani non mi sognerei mai di dare del fascista, gli imputo invece di aver agito in accordo con ex fascisti e piduisti per un ventennio, spartendo insieme a loro anche le ossa della Nazione. Anni in cui non c'è traccia di leggi sul conflitto di interessi o contro la corruzione. Violante e D'Alema sono stati le punte di diamante del pdl/pdmenoelle. Bicamerale, garanzia delle televisioni a Berlusconi, concessione delle frequenze televisive all'uno per cento dei ricavi. E lo Scudo Fiscale, passato grazie alle assenze dei pidimenoellini? e le decine di volte in cui il governo Berlusconi poteva essere sfiduciato, ma i pdimenoellini erano sempre altrove? Nel 2007 sono state presentate tre leggi di iniziativa popolare per ripulire il Parlamento dai poltronissimi (massimo due mandati) e dai condannati e per l'elezione diretta degli eletti: non sono mai state discusse. Chi è il fassissta, caro Bersani? Chi ha ignorato 350.000 firme? Quando mi presentai "in carne e ossa" per la segreteria del pdmenoelle mi fu impedito. Chi era il fassissta, caro Bersani? Il MoVimento 5 Stelle ha rifiutato ogni rimborso elettorale, il pdmeneolle non ha mollato neppure l'ultima rata dello scorso giugno perché già spesa. Chi fa il fassissta con il finanziamento pubblico abolito da un referendum, caro Bersani? Chi voleva il nucleare "pulito" nonostante un referendum contrario? Io ho girato l'Italia con un camper, a mie spese, per fare campagna elettorale. Senza scorta. La Finocchiaro con la scorta ci fa la spesa e Fassino il primo maggio. Chi è il fassissta, caro Bersani? Lei ha ricevuto 98.000 euro da Riva, il padrone dell'ILVA, a che titolo? Chi è il fassissta, caro Bersani? Ma si rassicuri, lei non è un fascista. E' solo un fallito. Lo è lei insieme a tutti i politici incompetenti e talvolta ladri che hanno fatto carne da porco dell'Italia e che ora pretendono di darci anche lezioni di democrazia. Per rimanere a galla farete qualunque cosa. A Reggio Emilia si celebra Pio La Torre mentre si tratta con l'Udc di Cuffaro. Amen.

ADRENALINA PURA AL PD FEST!

Festa Pd, si parla di tutto quindi di niente. di Andrea Scanzi | 25 agosto 2012.
L’attesa è spasmodica, il traffico andrà in tilt, l’entusiasmo sarà parossistico. Domani, ore 18, Area Dibattiti Pio La Torre. Ressa indicibile per l’avvincente tema: “Per la buona politica: quale riforma dei partiti?”. Modera Stefano Menichini, monologa Giuliano Amato. Scariche di adrenalina pura, quasi come i Jefferson Airplane all’Isola di Wight 44 anni fa. Comincia oggi, a Reggio Emilia, la quinta Festa Nazionale del Partito Democratico. Il cartellone, come sempre, è di livello. Da Roberto Benigni ad Alessandro Bergonzoni, da Mauro Pagani a Nada, dal Tributo a Lucio Dalla (con il Bersani bravo, Samuele) a Goran Bregovic. Settimane di musica, riflessioni, ritrovi. E tendenze, più o meno dichiarate. La prima, meramente giornalistica, è che per il Pd vanno bene tutti, ma proprio tutti – infatti c’è anche Alessandro Sallusti – tranne Il Fatto Quotidiano. L’unico giornale non invitato. Entrambe le parti sopravviveranno serenamente all’assenza reciproca, beninteso, ma è forse un dato da rilevare : dialogo uber alles, anzitutto con chi in fondo la pensa come noi (i berlusconiani), però chi ci critica è altamente sgradito. C’era una volta Zdanov. Questa tendenza, peraltro, rischia di generare un effetto-cloroformio: Luisella Costamagna che celebra il romanzo di Walter Veltroni, Luca Sofri che titilla Matteo Renzi. E l’ubiquo Menichini che parlerà – si direbbe da solo – “di Europa, dalla carta all’online”. Botte di vita. Se il feticismo per la sobrietà è comprensibile, desiderare la catatonia degli astanti è cosa sadica. La Festa del Pd si caratterizza per la fiducia cieca nel monolite di sempre: il “dibbattito”, rigorosamente con due “b” (e altrettante palle, talora). Temi alti, titoli severi. E un che perenne di solenne. Era già così quando Benigni – al tempo Cioni Mario – scherzava sulla schizofrenia dei “compagni”. Da una parte la minuscola Pci toscana di Vergaio che si prefiggeva di risolvere la questione mediorientale, dall’altra lo storico dibattuto di Berlinguer ti voglio bene: “E dopo, anche in base a i’ famoso proverbio, tira più un pelo di fica che du’ paia di bovi, do la parola alle signorine. Ecch’ i’ tema! Pole la donna permettisi di pareggiare coll’omo? No”. Il dib(b)attito al tempo del Pd è un po’ diverso. Meno ironico, più penitenziale. Un mix di moniti, contraddizioni generazionali e sempiterni maanchismi. Così come suona curioso chiedere a Giuliano Amato quale sia la buona politica, sfugge il perché debbano essere Dario Franceschini e Pierferdinando Casini a rispondere al quesito (appena impegnativo): “Quale politica per il futuro?”. Tanto vale chiedere ricette vegane ai macellai. Preoccupa anche il dib(b)attito di lunedì 27 agosto, ispirato al testo di Fabrizio Rizzi “Berlusconi, finale di partita”. Relatori: Pierluigi Castagnetti, Ugo Sposetti, Alessandro Sallusti. Almeno un antiberlusconiano non avrebbe stonato. I titoli dei dib(b)attiti trasudano l’antica e mai appagata voglia di cilicio: guai a divertirsi, la vita è dolore e periremo tra atroci sofferenze. Anzitutto se di sinistra. Che la stoica flagellazione abbia dunque inizio: ieri ce lo chiedeva il popolo , oggi l’Europa. “Come rilanciare la scuola ai tempi dello spread” (wow): “Ritorno alla terra, ritorno al futuro. Per una politica di tutela del suolo agricolo italiano” (slurp). Accanto a incontri stimolanti (“A 30 anni da quel terribile 1982”) e belle presentazioni di libri, ci si imbatte in appuntamenti quasi minacciosi. Tipo: “Torniamo a discutere del sud”. Che sarebbe anche bello, ma se tale proposito significa ascoltare Raffaele Fitto, è lecito darsi malati (con notevole buonsenso, l’incontro successivo in programma è “Manuale di sopravvivenza”: forse per rianimare gli eventuali superstiti). Il programma della Festa è un profluvio di interrogativi. A Reggio Emilia sarà tutto un domandarsi; un alambiccarsi: un elucubrare assai pensosi. “Quale politica per il futuro” (si noti: lo chiedono a Nicola Latorre); “Quali riforme per la giustizia” (tra i relatori c’è Andrea Orlando, mica Cordero o Zagrebelsky); “Quali diritti per le coppie gay”. Dilemmi nobilissimi, ma non si capisce se il pubblico sia chiamato per ascoltare le risposte o – piuttosto – per darle. Giusto per ovviare alla mancanza di sintesi ideologica della coltissima dirigenza (a proposito: Massimo D’Alema ci sarà pure quest’anno. Disserterà di Europa con Tobias Piller. Via coi cortei). Rimarchevole anche la tendenza allegra a dire tutto e niente. Sì ma anche no. Togliatti ma pure De Gasperi. Engels senza dimenticare Paperoga. Vogliamo parlare di calcio? Ecco l’abracadabra equilibrista: “Il calcio italiano tra problemi e opportunità di riforma”. Di nuovo: tutto e niente. Problemi e riforma. Macerie e ricostruzione. La Festa, proprio come il Pd, è un contenitore capiente. Praticamente infinito: se poi, ogni tanto, ci finiranno dentro materia e antimateria, pazienza. Al massimo qualcuno imploderà (l’elettorato, si presume). Il Fatto Quotidiano, 25 agosto 2012

sabato 25 agosto 2012

Operazione "Green Rights".

Anonymous attacca: “L’Ilva di Taranto ha manipolato valori delle emissioni nocive”. Nel loro comunicato dicono di aver "bucato" il database aziendale e di aver scoperto che le rilevazioni dei valori delle polveri sottili sono stati taroccati. Dai dati estrapolati si evince come l'azienda avrebbe deliberatamente aumentato il valore della soglia di tolleranza iniziale per le diossine. di Redazione Il Fatto Quotidiano | 25 agosto 2012.
Anonymous Italia ha lanciato l’operazione “Green Rights”. Nel mirino degli hacktivist c’è l‘Ilva di Taranto. Nel loro comunicato dicono di aver “bucato” il database aziendale e di aver scoperto che le rilevazioni dei valori delle polveri sottili sono stati “manipolati”. “A seguito delle nostre ricerche, emerge che i grafici dei valori delle polveri sono stati manipolati“. Il testo continua puntando il dito contro “gli interessi economici e l’avidità di padroni e istituzioni relegano in secondo piano i diritti umani e ambientali”. Infatti si legge sulla pagina italiana di Anonymous, nella “grande maggioranza dei casi”, i valori riportati rimangono “molto al di sotto delle soglie di legge ma la variazione è minima”. Quindi sostiene il collettivo, le rilevazioni “compiute a settimane di distanza l’una dall’altra, in condizioni atmosferiche diverse, non presentano variazioni significative degli agenti inquinanti”. Quindi le conclusioni degli “Anon” è che vi è stata “una manipolazione dei rilevamenti effettuati”. Ad esempio portano le registrazioni su una valvola, la CK2NO2, dove “la rilevazione della concentrazione ambientale di contaminanti sale di giorno in giorno fino ad arrivare a quota 561.3 il 31 di maggio 2012. Il limite è fissato a 600. Dai dati estrapolati, inoltre, si evince come Ilva abbia deliberatamente aumentato il valore della soglia di tolleranza iniziale, che passa da 640 a 800″. Inoltre continua il comunicato “l’andamento dei dati rende plausibile analoghi incrementi delle emissioni dell’inquinante anche nei mesi successivi (superando, in data attuale, i valori limite di molti punti). A tal proposito segnaliamo che Ilva ha cancellato dal propio database la cronologia dei rilasci di contaminanti (furfurani) rilevati dalla valvola CK2SO2 a giugno. Tutto ciò costituisce un indizio del fatto che Ilva ha volutamente cancellato dai database dati compromettenti“. Oltre ad aver “avvelenato gli operai e i cittadini di Taranto” continuano gli Anonymous, l’acciaieria “ha anche agito in modo tale da oscurare la verità a spese della salute pubblica e dell’ambiente”. Le valvole in questione, spiegano nel comunicato, servono a misurare le concentrazioni di diossine, in particolare di furano. Questo è il nome comune dell’ossido di divinilene, un contaminante ambientale persistente di tipo organico che decade naturalmente in benzofurani policlurati, i quali son associabili alle diossine. Già naturalmente, il furfurano è volatile a temperatura ambiente e le concentrazioni rilevate sono “comparabili a quelle di un disastro ambientale”. L’azione del furfurano non è solo cancerogena: la sola concentrazione del prodotto volatile “basta ad incrementare di una considerevole percentuale” il presentarsi di malattie pneumologiche croniche, disordini immunologici atipici o persino malattie neoplastiche, ma è anche teratogena, ovvero causa problemi fetali. Quindi da Anonymous invitano gli operai e cittadini di Taranto, a “lottare per difendere non solo il posto di lavoro ma anche la salubrità, è un diritto e un dovere allo stesso tempo. Chi ricatta i propri dipendenti obbligandoli a scegliere fra salario o malattie è solo un deplorevole profittatore accecato dal denaro”. Il comunicato si conclude con l’annuncio di nuove iniziative: “Continueremo a scagliarci contro i fautori di inganno ed estorsioni, e rivendichiamo a gran voce, insieme ai lavoratori, il diritto di ogni persona a poter esercitare la propria professione nel rispetto dei diritti”.

venerdì 24 agosto 2012

La febbre dell'oro.

Bundesbank e il mistero dell'oro di Fort Knox. di: Raffaello Binelli,Il Giornale, da WSI. Le riserve auree della Germinia ammontano a 3400 tonnellate (solo gli Usa ne hanno di piu') e sono custodite dalla Federal Reserve americana. Ma dal 2007 nessuno controlla.
Fort Knox: la fortezza (in Kentucky, a sud di Louisville e nord di Elizabethtown) dove è custodita la più grande quantità di oro del mondo. I tedeschi hanno un vero e proprio tesoro. La Bundesbank, infatti, custodisce all'incirca 3.400 tonnellate di oro (la quantità esatta è un segreto di Stato). Ne hanno di più solo gli Stati Uniti (8.100) o tutti gli stati dell'Eurozona messi insieme (10.800). Anche questo, oltre agli indicatori economici (Pil e spread) e al peso nelle trattative politiche internazionali (vedi i vincoli sul salvataggio della Grecia) è il segno della forza economica della Germania. Anche se, ormai da diverso tempo, non c'è più relazione tra l'oro posseduto e la moneta circolante. Qualcuno, in Germania, si è posto questa domanda: ma tutto questo oro dove si trova fisicamente? La risposta sembrerebbe ovvia: è nei forzieri della Bundesbank custoditi dalla Federal reserve americana. A sollevare il caso è stato un giornalista, Stefan Aust, ex direttore dello Spiegel. Rincara la dose la Augsburger Allgemeine, con un articolo intitolato così: "Un tesoro dimenticato in cantina". I controlli delle riserve (che la legge prevede ogni tre anni), non sarebbe così puntuali. Si parla, addirittura, del 2007 come l'anno dell'ultima ispezione dei funzionari della Bundesbank alla Federal reserve. Non è una stranezza che l'oro tedesco sia in America: risale alla Guerra fredda. Motivi di sicurezza. Negli anni, però, qualcuno ha iniziato a chiedere di riportarlo in patria. Che senso ha tenerlo negli Usa, visto che la Cortina di ferro non esiste più? In Italia qualche mese fa si era parlato della possibilità di utilizzare le nostre riserve auree per fronteggiare la crisi. Ipotesi poi scartata perché quelle risorse servono, prima di tutto, come garanzia. Poi si era accesa qualche polemica sulla diminuzione della nostra riserva, pari a circa sei miliardi di euro. Ma la Banca d'Italia aveva chiarito che si trattava solo della variazione del prezzo dell'oro. L'argomento, come si vede, continua a essere molto caldo. In tempi di crisi ovviamente tutto è possibile. A metà anni Settanta il governo italiano, presieduto da Aldo Moro, per fronteggiare una pesante crisi valutaria fece ricorso proprio alle riserve auree (circa 540 tonnellate d’oro) come garanzia per un prestito di 2 miliardi di dollari concesso dalla Germania. Corsi e ricorsi della storia. I tedeschi pretesero - e ottennero - una garanzia forte. Oggi sono ancora loro a guidare le danze dell'economia. Ma sulla loro ricchezza, stranamente, c'è un alone di mistero... E c'è chi avanza un'ipotesi inquietante: l'oro tedesco c'è, ma solo sulla carta. Copyright © il Giornale. All rights reserved

L'invincibile mela.

UNA DOMANDA: L'AZIENDA CON LA MASSIMA CAPITALIZZAZIONE DELLA STORIA AMERICANA,POTEVA PERDERE- IN UN MOMENTO DI TRACOLLO ECONOMICO OCCIDENDALE-IN UN TRIBUNALE AMERICANO? Samsung deve 1,05 miliardi di dollari di danni a Apple. di: ANSA Pubblicato il 25 agosto 2012. Giuria: infranti volontariamente almeno 3 brevetti (ANSA) - NEW YORK, 25 AGO - Samsung deve ad Apple 1,05 miliardi di dollari in danni per aver infranto volontariamente almeno tre brevetti di Apple. Lo ha deciso, riporta l'agenzia Bloomberg, la giuria incaricata di deliberare sul processo 'tecnologico' del secolo. Negli scambi after hours i titoli di Cupertino salgono dell'1,82% a 675,90 dollari. Samsung ha copiato, Apple vince la causa. di: WSI, 25 agosto 2012.
L'azienda dell' iPad ha vinto: una giuria Usa ha condannato il colosso coreano produttore della tablet Galaxy a pagare $1.05 miliardi per la violazione di sei su sette brevetti di Apple, nella piu' grande battaglia mai combattuta finora per il dominio del mercato globale di smartphone e dispositivi mobili. Il Ceo di Apple, Tim Cook, succeduto al mitico Steve Jobs. Per Cook e' un giorno di vittoria. Apple (AAPL) ha vinto la causa contro Samsung: una giuria Usa ha condannato il colosso coreano produttore della tablet Galaxy a pagare $1.05 miliardi per la violazione di sei su sette brevetti di Apple relativi all'utilizzo e al design di "mobile device", nella piu' grande battaglia mai combattuta finora per il dominio del mercato globale di smartphone e dispositivi mobili. La giuria popolare, come prassi nel sistema giudiziale americano, composta da 9 persone (3 erano state esonerate), riunita nel tribunale federale di San Jose', in California, ha anche stabilito che tutti i brevetti di Apple su cui si e' deliberato sono validi. Ieri una corte sudcoreana aveva condannato i colossi Apple e Samsung Electronics per aver violato i rispettivi brevetti, proprio mentre le due aziende sono impegnate in un processo in California per gli stessi motivi. Il tribunale di Seoul ha condannato il gruppo di Cupertino a un risarcimento di 40 milioni di won (35.242 dollari) a Samsung per aver violato due brevetti legati agli standard delle telecomunicazioni, mentre l'azienda sudcoreana dovrà pagare 25 milioni di won per aver violato l'interfaccia utente di Apple. Samsung aveva sporto denuncia contro Apple lo scorso aprile, atto a cui l'azienda americana aveva risposto con una contro-denuncia a giugno. La sentenza della corte sudocoreana è arrivata dopo che la giuria di San Jose, in California, ha concluso mercoledì scorso le udienze e ha deliberato stasera.

giovedì 23 agosto 2012

Paolo Poli, il caldo e Firenze.

LA MIA FIRENZE DOVE IL CALDO È PIÙ CALDO. Paolo Poli, (Testo raccolto da Osvaldo Guerrieri) per "La Stampa".
Il caldo, Dio mio, il caldo! Palazzeschi diceva: «Mamma mia che freddo, Gesù mio che caldo». Non siamo mai contenti. A me il caldo piace, lo preferisco al freddo. Il freddo mi ricorda la Seconda guerra mondiale con le famiglie spaventate che scappavano. Oggi c'è la crisi, ma siamo più civili. Perciò il caldo non mi fa paura, anche se mi trovo a Firenze, che è la mia città dove ritorno domani. Mi dicono che hanno cominciato a razionare l'acqua. Anzi una mia amica filosofa sostiene che hanno «razionalizzato» l'acqua. Che ci vogliamo fare? Una volta è l'alluvione, un'altra volta è la siccità. Il fatto è che Firenze bisogna saperla. Non è una città come le altre. Firenze è un po' come Bologna: si trova al fondo di una tazza, perciò il caldo è più caldo che da altre parti. Quando ci abitavo, cercavo di difendermi in modo davvero semplice: andavo al Chiostro dello Scalzo costruito dalla Compagnia dei Disciplinati di San Giovanni Battista, detta la Compagnia della buona morte, e lì mi mettevo a guardare gli affreschi di Andrea Del Sarto. Non era soltanto un piacere, era soprattutto un grande conforto. All'uscita, uno poteva anche decidere di farsi frate. Era meraviglioso, rinfrescante.

3 big per scenari di eurocrack.

"Se cade l'euro, Ue al collasso" di: Nouriel Roubini,Nicolas Berggruen,Mohamed El-Erian. Nel breve periodo, per l’Europa la frammentazione sarebbe l’equivalente economico e finanziario di un arresto cardiaco. Opinione di Nouriel Roubini, Mohamed El Erian, Nicolas Berggruen. fonte: WSI
Roma - In teoria, i più concordano che il progetto d’integrazione della zona euro valga la pena di essere salvaguardato. Eppure, negli ultimi due anni in occasione di ogni decisione importante durante l’euro-crisi l’impegno dei politici è apparso troppo parziale e troppo condizionato. Più a lungo la zona euro rimane in una terra di nessuno con la periferia che accumula ulteriore debito a tassi di interesse elevati solo per guadagnare tempo, più costosi e dolorosi saranno i futuri aggiustamenti e maggiori i rischi di crollo. Questo è ormai così evidente che alcune voci rispettabili all’interno dell’opinione maggioritaria stanno ormai giungendo alla conclusione che, già ora, la zona euro potrebbe non essere più sostenibile e, quindi, sarebbe meglio dividersi adesso invece che più tardi, quando i costi potrebbero essere molto più alti. Ma questo punto di vista si spinge troppo oltre. Cerchiamo di non lasciare dubbi: se la zona euro va a pezzi cade anche l’Europa e possono crollare anche il mercato unico e l’Unione europea. Quindi, se si crede nella sostenibilità della zona euro, non c’è assolutamente più tempo da perdere. Per i leader europei l’unica alternativa alla disfatta dell’euro nei prossimi mesi sta nel trovare la volontà politica per passare rapidamente a una maggiore integrazione - a partire da una tabella di marcia molto più chiara e perseguibile verso l’unione bancaria e fiscale che fermi e inverta la balcanizzazione delle banche e dei mercati del debito pubblico; un’unione economica che ripristini la crescita e la competitività, e un’unione politica che dia legittimità democratica al trasferimento di grandi parti della sovranità fiscale, bancaria ed economica al centro dell’Ue. E tutto questo può essere possibile - anzi auspicabile - solo se preceduto da un rinnovamento dell’appartenenza alla zona euro in modo che sia più in linea con le realtà attuali e con le verosimili prospettive. La frammentazione dell’eurozona - che definiamo come il ritorno alle monete nazionali di una parte significativa degli attuali 17 membri della zona euro, e in particolare di uno o più dei quattro grandi (Germania, Francia, Italia e Spagna) - sarebbe così destabilizzante e caotica che l’Europa si troverebbe ad affrontare un decennio perduto. Oltre a distruggere la zona euro, la più grande, ovvero i 27 membri dell’Unione europea, sarebbe messa a dura prova. Nel breve periodo, per l’Europa la frammentazione sarebbe l’equivalente economico e finanziario di un arresto cardiaco. I flussi transfrontalieri di merci, servizi e capitali si interromperebbero perché le preoccupazioni per la definizione della valuta sopraffarebbero il normale calcolo di valutazione. Grandi disallineamenti valutari alimenterebbero lo stress finanziario delle aziende e darebbero luogo a molteplici inadempimenti. La disoccupazione s’impennerebbe. E la prestazione di servizi finanziari di base, dal settore bancario alle assicurazioni, sarebbe ridotta con un’alta probabilità di corse agli sportelli nei Paesi membri più vulnerabili della zona euro. Proliferebbero i controlli – dal momento che le economie deboli cercherebbero di limitare l’aumento dei deflussi di capitali e le economie forti resisterebbero ad afflussi eccessivi. Nel processo sarebbe compromesso il funzionamento stesso del mercato comune che è alla base del progetto d’integrazione europea. La balcanizzazione delle banche, dei mercati finanziari e dei mercati del debito pubblico che è già in corso sarebbe seguita dalla balcanizzazione degli scambi di beni, servizi, lavoro e capitale, e da un ritorno al protezionismo commerciale e finanziario. I Paesi provati ormai da diversi anni dalla gestione delle crisi hanno pochi o anche nessun ammortizzatore in grado di assorbire nuovi colpi. Di conseguenza, gli sconvolgimenti economici e finanziari probabilmente alimenterebbero tensioni sociali e disfunzioni politiche – minando ulteriormente il sostegno nazionale per l’integrazione europea. Ma se il peso della catastrofe sarebbe sentito principalmente dalle economie deboli (già periferiche), anche i Paesi più forti (quelli che erano il nucleo) subirebbero un notevole contraccolpo. Vediamo caso per caso. Nel tornare alle loro monete nazionali, le economie più deboli della zona euro riprenderebbero il controllo di una serie più ampia di strumenti politici. Avrebbero così maggiori mezzi per perseguire i vantaggi competitivi che sono essenziali per il ripristino delle dinamiche di crescita e la creazione di posti di lavoro. Ma farlo in modo efficace richiederebbe la gestione sapiente di una svalutazione delle principali valute. Essi si troverebbero anche a contrastare forti pressioni inflazionistiche e costi più elevati delle importazioni, canali di trasmissione monetaria e bancaria interrotti, e maggiori premi di rischio. E con tutta l’Europa disconnessa, scoprirebbero che i vantaggi nei prezzi ottenuti tramite la svalutazione rischiano di essere erosi da un crollo della domanda regionale. Inoltre, dati i disallineamenti valutari, un ritorno su vasta scala alle monete nazionali comporterebbe una serie d’inadempienze. Insieme ad alcune ristrutturazioni coercitive e a una conversione forzata di posizioni in euro nelle nuove e deprezzate monete nazionali. I temi della domanda regionale e del default sono importanti anche per le economie più forti. Nonostante i progressi fatti nella diversificazione del commercio, tra cui un maggiore riorientamento verso i Paesi emergenti, quantità significative delle loro esportazioni sono ancora vendute in Europa. Questo crollo del mercato arriverebbe al colmo delle perdite a causa della rapida erosione dei crediti finanziari verso le economie più deboli insolventi per i loro debiti in euro, sia direttamente sia tramite la probabile necessità di ricapitalizzare le istituzioni regionali. La ristrutturazione del debitore, e il default certo, potrebbero compromettere i bilanci delle istituzioni creditrici, aumentando il loro proprio debito (perché avranno le stesse attività, ma una maggiore passività) e il costo del capitale. E sarebbe a rischio anche il rating AAA della Germania e di altri membri fondanti della zona euro. Vi è poi il resto del mondo. L’Europa è ancora la più grande area economica del globo, e la più interconnessa da un punto di vista finanziario. Come tale, il suo crollo sarebbe inevitabilmente trasmesso al resto del mondo. E con gli Stati Uniti che stanno già lottando per mantenere una crescita economica significativa e creare posti di lavoro, potrebbe concretizzarsi una recessione globale. Tutto questo spiega, naturalmente, il motivo per cui le narrazioni politiche hanno ripetutamente cercato di escludere una frammentazione della zona euro; e anche perché i leader di altri Paesi hanno messo sotto pressione i loro omologhi europei per affrontare la crisi regionale in modo più deciso e olistico. Ma le parole e le moral suasion sono gravemente insufficienti per fermare le forze di frammentazione liberate da gravi difetti di progettazione e alimentate da anni di risposte politiche tattiche piuttosto che strategiche, sequenziali e non simultanee, e parziali e non complete. Solo comprendendo l’enormità dei rischi che corrono, i leader europei hanno una possibilità di superare le persistenti tensioni interne e convergere su una risposta che possa mutare le regole del gioco. E solo allora sarebbero in grado di convincere una cittadinanza scettica della necessità di adottare misure realmente senza precedenti - innanzitutto riformare la zona euro in un’unione più coerente, più piccola, meno imperfetta e strutturata e gestita in modo più saldo; in secondo luogo garantire che questa Eurozona riformulata possa andare avanti nel creare crescita e posti di lavoro; e, terzo, salvaguardare il funzionamento più ampio dell’Unione europea. Dopo troppi anni di battibecchi e litigi, i leader europei non hanno più a disposizione una soluzione chiara, relativamente gratuita e altamente certa per la crisi regionale. Quello che hanno è un po’ di tempo - anche se non molto - per tentare di difendere l’integrità del progetto d’integrazione regionale, adottando subito misure coraggiose, a partire da un’unione economica, fiscale e bancaria, fino all’unione politica. Sì, il risultato è tutt’altro garantito e, inevitabilmente, ci sarebbero immediate defezioni. Ma tutto questo impallidisce in confronto alla catastrofe che l’Europa e il mondo subirebbero se si continua con un approccio che rimane troppo limitato e troppo a corto raggio. La Germania e i Paesi chiave devono decidere con coraggio se credono che la zona euro possa sopravvivere e in quale formato. Se la risposta è sì, allora la ricerca di un’unione meno imperfetta dovrebbe essere corredata di massicci finanziamenti ufficiali, sia fiscali sia dalla Bce, alla periferia per lenire il doloroso adattamento attraverso l’austerità, le riforme e la svalutazione interna. Se, invece, si dovesse decidere che la zona euro non è vitale, come invece è e che un’unione più piccola non è realizzabile, i costi di un crollo futuro e disordinato sarebbero molto più alti di una rottura immediata. Quello che non dovrebbe ad alcun costo accadere è che la zona euro rimanga com’è ora nel mezzo del guado. * Nouriel Roubini, economista, professore alla Stern School della New York University * Nicolas Berggruen è presidente del Consiglio sul futuro dell’Europa * Mohamed A. El-Erian è Ceo di Pimco, la società globale di gestione degli investimenti [Traduzione di Carla Reschia] Copyright © La Stampa. All rights reserved

Prodi cerca rimedi per il guaio in cui ci ha messi.

La soluzione alla crisi? Gli Euro Union Bond. di: WSI Pubblicato il 23 agosto 2012. L'idea e' conferire beni reali a un fondo europeo, che a sua volta potrebbe investire in grandi progetti di infrastrutture. Tutti i dettagli del progetto Prodi-Quadrio.
L'ex primo ministro Romano Prodi e l'economista della Cattolica Alberto Quadrio Curzio. Roma - E' una proposta che porterebbe vantaggi per l'intera Eurozona che non sta crescendo, facendo ripartire le economie della periferia e riducendo al contempo il rapporto tra debito e Pil dei paesi piu' indebitati. Si tratta di emettere "Euro Union Bond" per conferire beni patrimoniali reali a un fondo europeo, che a sua volta potrebbe essere ottenuto tramite la trasformazione degli attuali fondi salva stati esistenti. A quel punto parte dei fondi potrebbero essere anche utilizzati per grandi progetti di infrastrutture. "Se una parte del ricavato delle obbligazioni - Euro Union Bonds - venisse destinato a grandi investimenti infrastrutturali europei - spiega ai microfoni di Rainews24 uno dei due ideatori del piano, l'economista Alberto Quadrio Curzio - "la crescita riprenderebbe e il reddito nazionale dell'Eurozona aumenterebbe e con tutto cio' diminuirebbe il rapporto tra debito pubblico e Pil". Quella avanzata dall'ex premier Romano Prodi e dall'economista Quadrio Curzio sarebbe "una soluzione in cui non c'e' da perdere ma - a nostro avviso - solo da guadagnare", come sottolineato dai due professori.. Il progetto Prodi-Quadrio ha una caratteristica distintiva: nel dettaglio, il Fondo europeo emetterebbe un multiplo di obbligazioni rispetto al proprio patrimonio da utilizzare in parte a fini di rilevazione dei debiti pubblici nazionali e in parte per fare sviluppo. "La ragione di esistere della nostra proposta e' che la Germania non si fida di altri paesi perche' potrebbero risultare insolventi. L'Italia non metterebbe sul piatto delle promesse ma dei beni reali", che hanno un valore in se'. E l'Italia - spiega al canale All News il docente di economia all'Universita' Cattolica di Milano, "ne ha a sufficienza sia in termini di risorse auree che in termini di altri beni patrimoniali, per dare tutte le garanzie sufficienti. "In cambio chiederebbe chiaramente che buona parte del suo debito pubblico fosse rilevata e in quel caso andrebbero pagati interessi molto piu' bassi di quelli di mercato e andrebbe detenuta fino alla scadenza". L'Italia, che non e' ancora uscita dalla crisi sebbene non sia piu' percepita come il centro dei problemi dell'Eurozona, e' in recessione e i tassi di interesse viaggiano intorno al 5,5%, vanificando i sacrifici che hanno permesso di portare il surplus primario a circa il 4%. Per questo, come spiegano Prodi e Quarzio in un articolo pubblicato sul Sole 24 Ore, Roma non riesce a ridurre il debito pubblico, spingendo le autorita' politiche a valutare la vendita di asset pubblici. Prodi e Quarzio si oppongono all'idea. Anzi vorrebbero che i patrimoni e i beni reali venissero utilizzati come garanzia. Perche' non sono promesse, bensi' oggettivita'. Di certo, perche' il piano degli EUB funzioni bisogna che i singoli paesi rinuncino a parti di sovranita', che perlatro sono gia' state abbandonate sotto il profilo monetario con la creazione della Bce. Velata critica al governo dei due economisti quando dicono che "l'intenzione dell'Italia di farcela da sola" non risolvera' molto e potrebbe persino "giustificare" l'assenza di interventi europei taglia spread.

mercoledì 22 agosto 2012

Sennò si chiamava Aquila.

1- MENTRE IL SUPERMINISTRO GRIDAVA AI CIELLINI “MENO TASSE!”, I GIUDICI DI MILANO RICOSTRUIVANO IL SISTEMA DI FRODE FISCALE CHE IL GRUPPO GIACOMINI AVEVA MESSO IN PIEDI CON L’AIUTO E LA COMPLICITÀ DI BANCA INTESA, ALL’EPOCA DIRETTA DA PASSERA - 2- “FUNZIONARI ED EX FUNZIONARI DI BANCA INTESA LUSSEMBURGO METTEVANO A DISPOSIZIONE DEI GRUPPI ITALIANI LA COSTITIUZIONE E E IL RICICLAGGIO DI FONDI NERI IN LUSSEMBURGO” - 3- TRAVAGLIO: “IL “NUOVO PASSERA” USCITO DA RIMINI, INDAGATO PER FRODE FISCALE, PUÒ TRAVESTIRSI, FARSI FOTOGRAFARE DAI ROTOCALCHI SULLA SPIAGGIA CON LA FACCIA DA FIGACCIONE, LA SUA SIGNORA E L’INCOLPEVOLE PROLE, MA RESTA SEMPRE UN BANCHIERE CON LA FACCIA DA TRAVET, LA CUI POPOLARITÀ FRA GLI ELETTORI È INVERSAMENTE PROPORZIONALE A QUELLA SUI GIORNALI - (da dagospia).
1- INTESA AI TEMPI DI PASSERA: "PORTATE I SOLDI ALL'ESTERO" di Vittorio Malagutti, per "il Fatto Quotidiano". Eccola, la frase che chiama in causa Banca Intesa. Ecco le parole che giustificano dubbi e sospetti sul ruolo dell'istituto milanese, all'epoca guidato dal ministro Corrado Passera, nel caso Giacomini, una storia di frode fiscale e riciclaggio da centinaia di milioni di euro. Sono poche righe messe nero su bianco dal giudice per le indagini preliminari Vincenzo Tutinelli. "Si ha motivo di ritenere - scrive il magistrato milanese - che tale sistema sia messo a disposizione dei grandi gruppi economici italiani da funzionari ed ex funzionari del gruppo Banca Intesa Lussemburgo - con la probabile complicità della banca - per costituire fondi neri nel Granducato di Lussemburgo ed ivi riciclarli". Il documento firmato dal gip Tuminelli porta la data del 22 giugno ed è l'ordinanza che ha confermato la custodia in carcere a Milano per il broker internazionale Alessandro Jelmoni, arrestato a metà maggio con l'accusa di aver architettato e gestito la complessa struttura off shore che ha consentito alla famiglia Giacomini, titolare dell'omonima grande impresa con sede vicino a Novara, di nascondere al fisco qualcosa come 200 milioni di euro. È proprio questo il sistema a cui fa riferimento il magistrato. Un reticolo di società lussemburghesi gestite da una pattuglia di amministratori, molti dei quali avevano lavorato in Lussemburgo nelle fila del gruppo Intesa insieme a Jelmoni. Quest'ultimo vanta stretti rapporti personali con Marco Bus, numero uno della Sociétè Europèenne de Banque (Seb), che di fatto è la filiale di Intesa nel Granducato. Una decina di giorni fa Jelmoni è uscito dal carcere ed ora si trova ai domiciliari nella sua lussuosa abitazione nel centro di Milano. Sono invece stati rimessi in libertà Corrado ed Elena Giacomini, fratello e sorella, per anni veri dominus del gruppo di famiglia dopo aver estromesso, secondo l'accusa, il padre ottantenne Alberto e il fratello più giovane Andrea. È stato proprio quest'ultimo a dare il via all'inchiesta penale. Un'inchiesta che nelle settimane scorse si è divisa in tre tronconi affidati per competenze alle procure di Milano, Novara e Verbania. Tutto nasce però dalle dichiarazioni di Andrea Giacomini, che ha denunciato i famigliari, consegnando ai pm della procura di Verbania, il procuratore Giulia Perrotti e il sostituto Fabrizio Argentieri, decine di ore di conversazioni registrate di nascosto durante le riunioni in cui si discuteva del denaro nascosto all'estero e di come depistare le indagini dell'Agenzia delle Entrate, che nel 2010 (meglio tardi che mai) aveva rilevato flussi di denaro anomali dai conti dei Giacomini verso il Lussemburgo. Come il Fatto Quotidiano ha raccontato (articoli del 7 e dell'8 luglio) il denaro nero della famiglia piemontese, gestito da Jelmoni, è stato depositato proprio nella banca lussemburghese del gruppo Intesa, che all'epoca dei fatti oggetto di indagine era guidato dal futuro ministro Passera. Bus è indagato per concorso in riciclaggio, mentre la Seb è finita sotto inchiesta a Milano per violazione della legge 231 sulla responsabilità amministrativa delle imprese. Intesa nelle settimane scorse ha annunciato di aver avviato un'indagine interna sulla propria controllata nel Granducato. Come dire: se ci sono state irregolarità restano comunque un fatto circoscritto alla filiale di Lussemburgo. In attesa dei risultati delle indagini (quelle aziendali e quelle della procura) va detto che la Giacomini spa, marchio importante nella rubinetteria, era grande cliente di Intesa anche in Italia. Di più: agli atti dell'inchiesta ci sono anche le registrazioni di almeno un incontro tra un dirigente di Seb delegato da Bus, i Giacomini padre e figli e un manager di Intesa. Questo incontro si sarebbe svolto a febbraio 2011 nella sede milanese della banca in piazza della Scala. Il patron Alberto, preoccupato per il futuro dell'azienda, avrebbe voluto smontare il marchingegno societario messo in piedi da Jelmoni e riportare i suoi soldi in Italia. I dirigenti di Intesa cercavano invece di convincere l'anziano imprenditore a lasciare le cose come stavano. Non per niente. Secondo quanto è emerso dalle indagini della procura di Verbania, il tesoro milionario della famiglia piemontese, tra interessi e commissioni, fruttava lauti guadagni alla banca. Profitti garantiti dal lavoro di Bus e dell'amico Jelmoni. Il quale, a quanto pare, non è il tipo che usa giri di parole. C'è da mettere al sicuro un tesoretto frodato al fisco? Nessun problema. "Vuol dire che mando su i soldi a Dubai e poi magari il veicolo incassa i soldi a Singapore". Così si esprime il broker finito agli arresti in una conversazione registrata da Andrea Giacomini e finita agli atti dell'inchiesta. E perché mai proprio a Dubai e Singapore, luoghi in verità piuttosto fuori mano? Ecco la risposta: "Sono due Paesi che proprio non rispondono né agli scambi di informazioni né alle rogatorie". Chiaro? Chiarissimo.
2- CORRADO PASSERELLA. di Marco Travaglio per "il Fatto Quotidiano". Due estati fa il banchiere Corrado Passera sfilava in passerella al Meeting di Rimini, dove ormai è una rubrica fissa, con una requisitoria contro "tutta la classe dirigente italiana" che "non risolve i problemi della gente" e "suscita indignazione". Applausi a scena aperta dalla platea di Comunione e Fatturazione, che un applauso non l'ha mai negato a nessuno, anch'essa indignata contro la classe dirigente che non risolve i problemi della gente, ma quelli del Meeting di Cl sì, finanziato negli anni dai migliori esponenti della classe dirigente: Berlusconi, Ciarrapico, Tanzi, Eni, Banca Intesa (cioè Passera coi soldi dei risparmiatori) e Regione Lombardia (cioè Formigoni coi soldi dei lombardi). Il noto marziano naturalmente non aveva nulla a che vedere col Passera che amministrò Olivetti (poi venuta a mancare all'affetto dei suoi dipendenti), Poste Italiane e Intesa, dunque membro della classe dirigente che fa indignare i cittadini. Altrimenti avrebbe dovuto autodenunciarsi e beccarsi bordate di fischi. L'altroieri il Passera è tornato per la decima volta al Meeting, non più in veste di banchiere ma in quella di esaministro (Sviluppo economico, Infrastrutture, Trasporti, Comunicazioni, Industria e Marina mercantile): infatti ha evitato di riprendersela con la classe dirigente. Ha invece annunciato che "l'uscita dalla crisi è vicina, dipenderà molto da quello che si riuscirà a fare". Altrimenti l'uscita è lontana. Applausi scroscianti, gli stessi che nel corso degli anni han salutato Andreotti, Sbardella, Martelli, Forlani, Cossiga, D'Alema, Berlusconi, Napolitano, Bersani, persino Tarek Aziz e ieri Betulla Farina, Alfonso Papa e Luciano Violante (se un giorno salisse sul palco una donna delle pulizie o Jack lo Squartatore e si spacciassero per ministri di qualcosa, verrebbero sommersi di ovazioni). Il "nuovo Passera" uscito dal fonte battesimale di Rimini, manco fossero le acque del Giordano o del Gange o dello Yangtze, distinguibile dal vecchio per via delle maniche di camicia al posto della giacca, ha poi distillato altre perle di rara saggezza: essendo indagato per frode fiscale, ha detto che "bisogna trovare le risorse per abbassare le tasse, una vera zavorra, fra le più alte al mondo". In qualunque altro posto, gli avrebbero domandato: "Scusi, lo dice a noi che le paghiamo? Ma lei è un ministro o un passante?". Lì invece l'hanno applaudito. Anche se, in nove mesi da esaministro, non ha toccato palla (leggendario il giorno in cui annunciò un "decreto per la crescita" che avrebbe addirittura "mobilitato risorse fino a 80 miliardi", ovviamente mai visti manco in cartolina). Poi ha minacciato la platea con un modesto "sappiate che la responsabilità che sentivo verso il vostro mondo nelle vite precedenti, in quella attuale è molto aumentata". Mecojoni, direbbero a Roma. Applausi. Siccome poi Maroni l'ha invitato agl'imminenti, imperdibili "Stati generali del Nord" in programma a Torino, ha aggiunto: "Dobbiamo riprendere il federalismo". Ma certo, come no. I retroscenisti dei giornali, chiamati a decrittare il sànscrito dei politici, e ora dei tecnici, sostengono che Passera era a Rimini perché "il Meeting porta fortuna" e lui sogna una Lista Passera, o un Partito dei Tecnici, o una Cosa Bianca, o un Grande Centro, o un centrino, o un centrotavola, insomma qualcosa che lo issi a Palazzo Chigi o al Quirinale, visto che ritiene "improbabile" un suo ritorno a Intesa (e a Intesa condividono). Ormai si crede un leader, un trascinatore di folle, e nessuno ha il cuore di avvertirlo che gli applausi ciellini non han mai portato voti a nessuno. Un banchiere con la faccia da travet, specie di questi tempi, può travestirsi come vuole, farsi fotografare dai rotocalchi sulla spiaggia con la faccia da figaccione, la sua signora e l'incolpevole prole, ma resta sempre un banchiere con la faccia da travet, la cui popolarità fra gli elettori è inversamente proporzionale a quella sui giornali. Passerà (con l'accento).

martedì 21 agosto 2012

Comunità, libertà e fatturazione.

Coop rosse e Compagnia delle Opere, quanto è bello realizzare affari insieme. Quando al Meeting di Rimini nel 2003 Pierluigi Bersani, allora responsabile economico dei Ds, indicò in Cl il modello su cui rifondare la sinistra. La trasversale alleanza tra mondo cooperativo bianco e rosso per gestire appalti nel welfare e nell'edilizia. In attesa dell'Expo 2015. di Gianni Barbacetto | Rimini | 21 agosto 2012, da Il Fatto Quotidiano.
Chi ricorda più queste parole? “Se vuole rifondarsi, la sinistra deve partire dal retroterra di Cl. La vera sinistra non nasce dal bolscevismo, ma dalle cooperative bianche dell’800, il partito socialista arriva dopo, il partito comunista dopo ancora. E i movimenti del Sessantotto sono tutti morti, solo l’ideale lanciato da Cl negli anni Settanta è rimasto vivo, perché è quello più vicino alla base popolare, è lo stesso ideale che è alla base delle cooperative, un dare per educare”. A parlare così è Pierluigi Bersani. E’ l’agosto del 2003, quando l’attuale segretario del Pd è responsabile economico dei Ds e viene accolto con scrosci d’applausi dal popolo di Cl al Meeting di Rimini. L’alleanza tra il mondo ciellino e la sinistra italiana ha una storia ormai lunga. È vero che Comunione e liberazione ha sempre sostenuto con determinazione il centrodestra di Silvio Berlusconi, perdonandogli tutto, dalle barzellette con bestemmia al bunga-bunga. Ma è anche vero che si è sempre tenuta una mano libera, da allungare a sinistra. Soprattutto quando ci sono affari da spartire insieme. Ora, con Silvio in declino e il Pdl in crisi, quella mano diventa più forte e visibile. La “trasversalità” (guai a chiamarla inciucio) diventa esplicito progetto politico. Bersani al Meeting di Rimini del 2006 aggiunge una clamorosa rivelazione: “Quando nel 1989 Achille Occhetto volle cambiare il nome del Partito comunista italiano, per un po’ pensò di chiamare il nuovo partito Comunità e libertà. Perché tra noi e voi le radici sono le stesse”. Ovazione. Tre anni prima, nel 2003, era nato l’Intergruppo parlamentare sulla sussidiarietà, che ha tra i suoi più assidui ed entusiasti frequentatori da una parte Maurizio Lupi (ciellino di Forza Italia-Pdl), dall’altra Enrico Letta (Ds, poi Pd). L’Intergruppo si propone come “tavolo di discussione bipartisan ideato per creare un dibattito trasversale sul tema della sussidiarietà”, proclama Lupi. “Il suo obiettivo principale è promuovere l’iniziativa privata dei cittadini in forme di autorganizzazione per sperimentare un rapporto più evoluto fra programmazione statale e soggetti privati. Le diverse nature politiche dei promotori dell’Intergruppo ne hanno fatto un caso singolare nel panorama italiano”. Non così singolare, in verità, vista la propensione italiana all’inciucio. In questo caso, più sociale che politico. La parola d’ordine è “dal welfare state alla welfare society”, vale a dire: meno Stato sociale e meno intervento pubblico, per dare più spazio alle cooperative, sia cielline, sia rosse. Se poi si vuol trovare l’atto fondativo di un patto tra mondo ciellino e sinistra, il primo passo di un lungo cammino insieme, si deve risalire ancora più indietro nel tempo: al luglio 1997, quando nasce Obiettivo Lavoro, agenzia per fornire lavoro temporaneo. A fondarla sono, insieme, la Lega delle cooperative e la Compagnia delle opere, coop rosse e ciellini. Ne diventa presidente Pino Cova, ex segretario della Cgil Lombardia e della Camera del lavoro di Milano, amministratore delegato è Marco Sogaro, della Cdo. Ma sono gli affari a dare sostanza concreta ai progetti “alti”. Coop rosse e imprese della Cdo si spartiscono ormai tranquillamente molti appalti pubblici. A Milano, il nuovo ospedale di Niguarda nascerà con le strutture realizzate dalla coop Cmb di Carpi e i servizi gestiti da aziende della Compagnia delle opere. I motori delle due centrali, quella bianca e quella rossa, si stanno già scaldando anche per i lavori dell’Expo 2015: già pronte le coop Cmb, Unieco e Ccc. Anche il monumento al formigonismo, il nuovo grattacielo sede della giunta lombarda, è nato dalla stessa alleanza: Infrastrutture lombarde, la potentissima stazione appaltante controllata dalla Regione di Roberto Formigoni, per Palazzo Lombardia ha assegnato appalti anche a Cmb di Carpi e a Ccc di Bologna, oltre che all’Impregilo di Massimo Ponzellini, a Pessina, a Cile e a Montagna Costruzioni, azienda socia della Cdo e presente nel suo consiglio direttivo. Le coop sono ben piazzate anche negli appalti del nuovo polo fieristico di Rho Pero (Cmb di Carpi) e del Portello (Cmc di Ravenna). Ma il sistema è pervasivo e nazionale, se è vero che funziona, per esempio, anche a Vicenza: il nuovo ospedale di Santorso sarà tirato su da Summano Sanità, società formata insieme da coop (anche qui Cmb) e Cdo. Gli amici di Cl sono tanti, nel Pd. Bersani e Letta, ma anche Matteo Renzi. Il più amico di tutti era Filippo Penati, accolto nel 2004 dall’allora presidente della Cdo milanese, l’ex Pci e imputato di Mani pulite Massimo Ferlini, con queste parole: “Lo abbiamo invitato nella sua veste di presidente della Provincia. Ma lo conosciamo come un vero riformista dai tempi in cui era sindaco di Sesto San Giovanni”. Dna comune, evidentemente.

Basta affabulazione, please.