mercoledì 29 febbraio 2012

Sobri e feroci


L’orgoglio bocconiano è un primato infallibile?

dal blog di Gad Lerner,mercoledì 29 febbraio 2012


Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.

Sabato scorso ho partecipato alla cerimonia inaugurale dell’anno accademico dell’Università Bocconi di Milano e ne sono uscito ammirato, ma con un pizzico di delusione che vi vorrei comunicare.
La platea pullulava di protagonisti del potere economico italiano e di rappresentanti delle istituzioni, molto spesso ex bocconiani loro stessi. Riuniti nel compiacimento reciproco per il ruolo decisivo assunto dalla scuola economica bocconiana nel governo del Paese, quale occasione migliore per festeggiare i risultati eccellenti di un amico, un collega, il più bocconiano dei bocconiani, divenuto presidente del Consiglio cento giorni prima?
Insomma, con tutto il rispetto per il corpo docente che sul palco indossava la toga e per la gioventù studentesca che affollava la platea, noi delle prime file eravamo lì per salutare e applaudire il doppio incarico di Mario Monti, capo del governo tecnico e presidente dell’Università privata milanese. A mia discolpa posso aggiungere che io ero lì anche per gratitudine: vari docenti della Bocconi (non la pensano tutti allo stesso modo) sono fra i protagonisti più stimolanti delle puntate televisive dell’Infedele, e i loro allievi non sono da meno. Aggiungeteci che il sottoscritto non si è mai laureato; la militanza politica giovanile che si sarebbe tradotta nel mestiere del giornalismo mi ha trascinato via dall’università dopo soli sette esami, e dunque guardo con invidia a quel senso di appartenenza consolidato nei luoghi del sapere. Una grande scuola sa farsi riconoscere e sa farsi amare: lo si percepiva con commozione in quell’aula magna, già prima che Mario Monti raggiungesse il palco e facesse vibrare le corde della sua personale nostalgia.
Puntuale e orgogliosa la relazione del rettore uscente Guido Tabellini –un economista in odore di Nobel- sulla competitività dell’ateneo proteso all’eccellenza. Dotta e un pizzico trasgressiva la dissertazione di Piergaetano Marchetti –il notaio dei “salotti buoni”, ma sempre con la cravatta rossa- sulla nuova comunicazione online. Toccante, infine, la rievocazione dell’ottantacinquenne Luigi Guatri –forse il più potente dei commercialisti italiani- sull’investitura di Mario Monti come principale interprete dello spirito bocconiano.
Tutto bello, misurato, senza eccessi né sviolinate di dubbio gusto; al contrario con l’ironia soffusa di chi è abituato a ben altri palcoscenici e lì piuttosto sta celebrando una rimpatriata familiare a vantaggio dei più giovani che dovranno seguire l’esempio. Ma allora cosa avrò da ridire, da inguaribile rompiscatole?
Signori miei, ma è mai possibile che in un simile consesso di economisti, riunito a celebrare la massima assunzione di responsabilità di uno dei vostri, e i risultati conseguiti, e il clima di fiducia ritrovata, neanche mezza parola di sfuggita abbiate dedicata alla recessione che infuria e alle sofferenze che sta provocando? Possibile che l’autocelebrazione di una scuola economica non le consenta –in quella cornice solenne- il minimo accenno problematico sulle previsioni sbagliate, sulle ricette anticrisi rivelatesi fallaci, sulla necessità di rivedere i dogmi dell’ortodossia finanziaria insegnata nelle vostre aule?
Non discuto né l’onestà intellettuale né la sobrietà, la compostezza, il rigore. Ma mi chiedo se l’insegnamento non contempli pure un grado di sensibilità alla realtà circostante senza cui diviene arduo sviluppare fra gli studenti quel pensiero critico di cui oggi avvertiamo tanto il bisogno.

Salva l'Italia crepando.

Loris Campetti, dal manifesto

«Decreto semplificazioni»: il governo Monti non poteva trovare un modo migliore per indicare il decreto legge 5/2012. Infatti serve, tra le altre cose, a semplificare la vita dei padroni come garantisce l'art. 14.
Come è noto è la burocrazia (oltre all'articolo 18) a tarpare le ali alle imprese e a tenere lontani gli investimenti stranieri. Troppi controlli e troppi controllori. Prendiamo le norme sulla sicurezza sul lavoro: sarebbe meglio, anzi è meglio sostituire le lungaggini concertative dei decreti attuativi con un semplice confronto delle associazioni imprenditoriali. Già, che c'entrano i sindacati con la sicurezza sul lavoro? Che c'entrano i delegati operai addetti specificamente alla difesa della salute psicofisica dei lavoratori? E poi, volete sapere come dovrebbero intervenire i «controllori»? Con una «collaborazione amichevole con i soggetti controllati, al fine di prevenire rischi e situazioni di irregolarità». Magari facendo una telefonata amichevole prima di un'eventuale ispezione. Non basta ancora: il decreto stabilisce la «soppressione o riduzione dei controlli sulle imprese in possesso della certificazione del sistema di gestione della qualità o altra appropriata certificazione emessa, a fronte di norme armonizzate». D'ora in poi basterà aver messo le mani su un certificato per non avere rotture di scatole in azienda.
È l'opposto di quel che chiedono i pm torinesi che hanno istruito i processi esemplari contro la ThyssenKrupp per il rogo che ha ucciso 7 operai metalmeccanici e contro l'Eternit per la strage di migliaia e migliaia di lavoratori e cittadini.
Servirebbe una razionalizzazione del lavoro che coinvolge diverse istituzioni e soprattutto una professionalizzazione delle equipe che si occupano di sicurezza sul lavoro e ambiente. Dunque più investimenti, un maggior coordinamento e, secondo Raffaele Guariniello, una sorta di superprocura nazionale perché «i reati contro la sicurezza sul lavoro non sono di serie B rispetto ai reati delle mafie».
La risposta del governo Monti, invece, prefigura una deregulation dagli effetti devastanti per chi lavora, secondo la filosofia che mette i profitti al di sopra di tutto, anche della vita di chi lavora. Gli operai svuotati di soggettività e diritti diventano pura appendice delle macchine, variabili dipendenti del mercato. La sicurezza costa, è un lusso che in tempi di crisi non ci si può più permettere. Bisogna essere rapidi, snelli, riducendo al minimo i controlli che fanno perdere tempo e soldi.
Grazie a questa filosofia ogni anno in Italia muoiono più di mille lavoratori, una cifra impressionante che nel 2011 è tornata a crescere. È il prezzo del lavoro inteso come generosa concessione dei padroni che bisogna pagare, perché meno si disturba il manovratore più si produce ricchezza e tutti stanno meglio.
Per fortuna sono arrivati i professori al timone della nave con il progetto «salvaitalia». Se poi gli italiani crepano sul lavoro, facciamocene una ragione. O forse no.

martedì 28 febbraio 2012

Siamo tutti Valsusini


La Val di Susa resiste per tutti noi

di Fabio Marcelli, da Il Fatto Quotidiano


Dobbiamo essere chiari. In Val di Susa, come affermato dal Legal Team, è in atto una vera e propria emergenza democratica. Del tutto immotivato il ricorso all’art. 2 del Testo unico di pubblica sicurezza, espressione solo di una volontà di accanita prevaricazione antidemocratica. L’uso di queste normative eccezionali è di per sé indice di una grave degenerazione del sistema. Potenti lobbies, con l’appoggio di partiti politici (dal PD al PDL) incapaci di rappresentare le reali istanze popolari e totalmente succubi ai voleri dei poteri forti, cercano di imporre manu militari un’opera inutile e costosa che provocherà un danno ambientale e sociale irreversibile. Quando poi si verificano le vere emergenze questi stessi signori si mostrano del tutto incapaci di fare fronte ai problemi come si è visto con l’inondazione a Genova, la neve a Roma e in troppe altre occasioni.

L”inutilità dell’opera è stata dimostrata da esperti onesti e non asserviti al capitale finanziario. Il traffico merci sulla tratta è in costante diminuzione. Quello passeggeri, anch’esso in diminuzione, verrebbe velocizzato solo di un’ora, vantaggio assolutamente trascurabile. L’opera non presenta quindi nessun giovamento neanche dal punto di vista economico. Esistono al riguardo vari studi, fra i quali voglio segnalare quello realizzato dagli esperti Boitani, Ponti e Ramella, con il titolo “TAV: Le ragioni liberali del no”.

Il suo costo, pari a 30-40 miliardi di euro, costituirebbe un grave salasso per le casse statali, tanto più ingiustificabile in un momento di grave crisi come quello che stiamo vivendo. Perché non si mettono questi soldi nel miglioramento della scuola, della sanità e dei trasporti, di quelli già esistenti e che si trovano in condizioni spesso miserevoli? Anche l’impatto sull’occupazione sarebbe ben maggiore, se solo si pensa che un posto di lavoro per la costruzione della TAV ci costa, per un tempo limitato, cifre assolutamente astronomiche, ingiustificate e insostenibili.

Ultimo ma più importante di tutti, gravissimi rischi ambientali per la presenza di amianto, uranio e radom, per la compromissione delle risorse idriche, per l’esistenza di rischi idrogeologici, per la difficoltà di smaltire i materiali di risulta e varie altre ragioni.

Perché quindi tanto accanimento? La spiegazione risiede appunto nelle grandi somme di denaro che verrebbero trasferite senza colpo ferire nelle tasche dei soliti noti, a spese dei cittadini della Valle e di tutti i contribuenti italiani. L’Italia è oggi più che mai una repubblica fondata sulle cricche. Ma non se ne può più.

Per raggiungere quest’obiettivo di arricchire un limitato numero di spregevoli personaggi non si esita a mettere a repentaglio vite umane, come si è visto stamattina. E Luca Abbà è ancora in gravi condizioni.

A Giancarlo Caselli, che stimo e ritengo una persona di comprovata sensibilità democratica, consiglio di occuparsi meno del movimento NO-TAV, che costituisce una legittima espressione della volontà popolare, e più dell’infausto connubio affari-politica che è alla base di questo ed altri misfatti che si vogliono perpetrare contro il nostro popolo e contro il nostro territorio. Bisogna introdurre fin da subito l’assoluta trasparenza dei conti intrattenuti a qualsiasi titolo, da partiti e politicanti. Ugualmente le forze di polizia devono essere impiegate per contrastare la criminalità, anche quella dei colletti bianchi, e non per reprimere le giuste aspirazioni popolari.

Perché non si promuove un referendum, a livello locale, regionale e nazionale, per verificare, in adempimento di obblighi internazionali come quelli della Convenzione di Aarhus del 1998 sulla partecipazione democratica e l’informazione relativamente alle questioni ambientali , qual è l’opinione dei cittadini al riguardo?

La verità è anche che questa è diventata una questione di principio per una classe politica screditata, incompetente e squalificata, quella attualmente presente in Parlamento, che ne vuole fare ad ogni costo il banco di prova della governabilità “bipartisan” dell’Italia. Nello stile di Bettino Craxi, che finì com’è noto i suoi giorni ad Hammamet.

La Val di Susa fu uno dei centri della resistenza antifascista e antinazista. Oggi i discendenti di coloro che presero le armi contro l’occupante nazifascista portano avanti una lotta eroica e ammirevole contro la devastazione del loro territorio, ma anche, come in quegli anni, per la dignità di tutto il popolo italiano e la sua liberazione dalle cricche. Occorre appoggiarli fino in fondo.

La lotta NO TAV continua



Intervento di Alberto Perino, leader Movimento NO TAV

La Valle sta resistendo come sta resistendo tutto il resto dell’Italia, quello che è successo ieri è una cosa estremamente grave, voglio ricordare a tutti che le cose che sono successe sono state fatte nella più assoluta illegalità com’è stato scritto nel comunicato stampa del legal team dei No Tav e voglio ricordare che le forze di Polizia hanno occupato militarmente un’area sulla quale non avevano nessun diritto di andare perché erano aree private.
Siamo arrivati veramente alla collettivizzazione dei terreni privati, siamo arrivati all’appropriazione indebita di aree private, questo è un fatto estremamente grave e poi dicono che noi siamo i comunisti. La Valle si è fermata, la Valle è bloccata, da ieri mattina l’autostrada, la Statale 25 è bloccata e non passa più nessuna merce né altro, è aperta la Statale 24 per le autovetture, ieri sera siamo andati anche a bloccare l’autostrada a Salbentrand per creare problemi al cambio dei poliziotti, poi alle 2,30 di questa mattina sono arrivati un numero impressionante di Polizia, Carabinieri, sui due lati dell’autostrada, ci hanno presi in mezzo, siccome non eravamo tantissimi, eravamo forse un centinaio di persone, abbiamo alzato i tacchi anche perché la temperatura erano a -2°C e loro sono arrivati subito con gli idranti e con i lacrimogeni e questa è una cosa estremamente pesante, dopodichè dopo circa una mezz’oretta abbiamo tolto il disturbo e ce ne siamo andati, quindi siamo riusciti a fare comunque anche lì una buona manifestazione, era bloccata la Statale 25 a Salbentrand e era bloccata anche ovviamente l’autostrada.
Poi i blocchi sono continuati tutta la notte, questa mattina hanno continuato e verso le 11 sono arrivate due colonne a Chianocco sull’autostrada, una dalla parte alta di Susa, l’altra dalla parte bassa di Torino e ci hanno costretti a ritirarci dall’autostrada, però è stato fatto semplicemente un cambio, sull’autostrada c’erano le forze del disordine e allora per noi è andata anche bene, ci siamo messi lì con le mani alzate seduti per terra, loro hanno ripristinato l’autostrada, dopodichè se ne sono andati e noi siamo tornati a occupare l’autostrada, quindi la situazione è immutata, la Valle di Susa è completamente bloccata! L’Italia sta mobilitandosi, ieri in oltre 60 città ci sono state delle grandi manifestazioni, siamo tutti No Tav, tutta l’Italia è No Tav per dire no a questo Governo, per dire no all’esproprio della democrazia, per dire no ai soprusi polizieschi, forza Luca siamo tutti con te!

lunedì 27 febbraio 2012

Cronaca e attualità in un nuovo libro.



E il Cavaliere Bianco globale arrivò dopo Mangiafuoco nel nostro Paese dei Balocchi


Una manovra fatta quasi solo di tagli e tasse dal sapore antico, che si dirige nel senso contrario rispetto a ciò che servirebbe alla crescita. Poi qualcuno, da qualche parte, deve aver premuto il tasto Fast Forward dell’universo perché in poche settimane tutto cambia, o meglio tutto precipita, e dell’economia reale non parla più nessuno. È la finanza che invade e agita i nostri giorni. La Grecia sembra davvero barcollare sull’orlo del fallimento: i finanziamenti dall’Europa sono condizionati a misure malthusiane, e i telegiornali invasi dalle immagini di rivolte di popolo, con madri e vecchi e ragazzini a protestare contro la polizia in assetto di guerra, nella nebbia dei lacrimogeni. Subito dopo tocca all’Italia. La differenza di tasso tra i nostri BTP e i Bund tedeschi si alza bruscamente, e poi continua a salire. È lo spread, e diventa l’indicatore della nostra serenità. Più si alza, meno - e meno bene - si dorme. I giornali di tutto il mondo si pongono il problema della tenuta dell’Italia e delle sue banche di fronte a tassi d’interesse così alti e così divergenti da quelli tedeschi. Si avvia a dibattere apertamente della possibilità di fallimento del nostro paese e di un’uscita dall’euro le cui modalità, non essendo contemplata dai trattati, nessuno è in grado di immaginare. Il credito bancario alle aziende si inaridisce fin quasi a sparire. Roma viene incredibilmente messa a ferro e fuoco da fantomatici, incontrastati black bloc. Berlusconi partecipa a un ennesimo, inutile vertice G8 a Cannes, e nella conferenza stampa finale, accanto a un attonito Tremonti, dice che il nostro è un Paese ricco perché i ristoranti sono pieni. È tutta la politica italiana che impazza, perde la consapevolezza del momento, e si scioglie. Il 9 novembre 2011, giorno del mio compleanno, lo spread sale fino a 575 e i rendimenti dei BTP sfiorano l’8%, un tasso insostenibile per il sistema. Dopo qualche sfiatata resistenza, nel primo momento in cui è davvero messo alla prova, Berlusconi si dimette, congedato dai canti di gioia d’una folla incredula e festosa radunatasi davanti al palazzo del Quirinale, condannato ad andarsene tra lazzi e fischi e a essere ricordato come il Mangiafuoco dei nostri ultimi giorni di vacanza nel Paese dei Balocchi, la terra felice e sedata in cui abbiamo vissuto fino a oggi: l’Italia in cui tutto è in frantumi e danza, come vagellava Jim Morrison. Edoardo NesiEdoardo Nesi Entra in scena Mario Monti, il Cavaliere Bianco della Globalizzazione, il Professore dei Professori, il Salvatore della Patria, invocato e voluto e osannato e nominato prima senatore a vita e poi, dopo qualche giorno, presidente del Consiglio. Spalleggiato da ogni televisione e ogni giornale e ogni radio d’Italia, incredibilmente e incrollabilmente sostenuto in parlamento sia da un Popolo della Libertà frastornato sia da un Terzo Polo plaudente sia da un Partito Democratico entusiasta, si mette a telefonare ai suoi amici e forma in quattro e quattr’otto un governo di tecnocrati semisconosciuti che viene accolto da una salva di applausi assordante e pressoché unanime, e riscuote alle Camere una fiducia di dimensioni mai viste, perché quasi nessuno ha il coraggio di votargli contro, e in due settimane presenta una manovra fatta quasi solo di tagli e di tasse dal sapore antico, che si dirige esattamente nel senso contrario rispetto a ciò che servirebbe alla crescita dell’economia reale. Poi il Professore dei Professori va in televisione e giustifica la durezza della manovra - accolta con giubilo dai mercati che, sia chiaro, accoglierebbero con giubilo anche una patrimoniale del cinquanta per cento e l’abolizione dello Statuto dei Lavoratori - raccontando con la solita gelida compostezza appena appesantita da qualche goffaggine una serie di enormità fors’anche possibili, ma di certo impossibili da smentire perché non sottoponibili a controprova: che senza la sua manovra l’Italia sarebbe diventata come la Grecia, che non ci sarebbero stati i soldi per pagare gli stipendi alla fine del mese e, dopo qualche stolido secondo di pausa, come a ripetere una lezione imparata, nemmeno le pensioni. Che, se ancora non ce ne siamo accorti, lui sta salvando l’Italia. Della crescita si occuperà in futuro. Applausi. L’ironia sul passato Al G8 di Cannes Berlusconi dice che l’Italia è ricca perché i ristoranti sono pieni: in quel momento è tutta la politica che impazza e poi si scioglie Edoardo Nesi28 febbraio 2012 | 7:53© RIPRODUZIONE RISERVATA 6 Sottolineando o cliccando due volte su un qualsiasi termine di questo articolo accederai alle risorse lessicali ad esso correlate Ascolta Stampa questo articolo Riduci la dimensione del testo 0Share OGGI IN cultura > Appunti dai paesi delle tenebre Una lunga maratona nel dolore Ecco i segreti vaticani con l’abiura di Galileo e il caso di Enrico VIII Le tre vie al Vero Così Raffaello sconfigge il tempo CERCA libri La nota Il Mulino 27 febbraio 2012 Due destini paralleli L’Italia e la Francia si lasceranno alle spalle Berlusconi e Sarkozy? Se la sinistra riuscirà a imporsi nelle prossime tornate elettorali sarà anche per le difficoltà che vivono i due leader, di Marc Lazar ARCHIVIO storico Dizionari: impara e traduci ita sin eng spa fra ted Cerca nel Dizionario di Italiano a 134 canaliGUIDA COMPLETA ORAinONDA « 8:00 8:15 8:30 »8:45 TG 1 Tg1 Focus Phineas ... Cuccioli Yakari SamS... Mai dire gatt... Agorà Tg5 - mattina La telef... Mattino c... Alla ricerca della valle ... Picc... Ugo ... 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Una manovra fatta quasi solo di tagli e tasse dal sapore antico, che si dirige nel senso contrario rispetto a ciò che servirebbe alla crescita

Poi qualcuno, da qualche parte, deve aver premuto il tasto Fast Forward dell'universo perché in poche settimane tutto cambia, o meglio tutto precipita, e dell'economia reale non parla più nessuno. È la finanza che invade e agita i nostri giorni. La Grecia sembra davvero barcollare sull'orlo del fallimento: i finanziamenti dall'Europa sono condizionati a misure malthusiane, e i telegiornali invasi dalle immagini di rivolte di popolo, con madri e vecchi e ragazzini a protestare contro la polizia in assetto di guerra, nella nebbia dei lacrimogeni.
Subito dopo tocca all'Italia. La differenza di tasso tra i nostri BTP e i Bund tedeschi si alza bruscamente, e poi continua a salire. È lo spread, e diventa l'indicatore della nostra serenità. Più si alza, meno - e meno bene - si dorme. I giornali di tutto il mondo si pongono il problema della tenuta dell'Italia e delle sue banche di fronte a tassi d'interesse così alti e così divergenti da quelli tedeschi. Si avvia a dibattere apertamente della possibilità di fallimento del nostro paese e di un'uscita dall'euro le cui modalità, non essendo contemplata dai trattati, nessuno è in grado di immaginare.


Il credito bancario alle aziende si inaridisce fin quasi a sparire. Roma viene incredibilmente messa a ferro e fuoco da fantomatici, incontrastati black bloc. Berlusconi partecipa a un ennesimo, inutile vertice G8 a Cannes, e nella conferenza stampa finale, accanto a un attonito Tremonti, dice che il nostro è un Paese ricco perché i ristoranti sono pieni. È tutta la politica italiana che impazza, perde la consapevolezza del momento, e si scioglie. Il 9 novembre 2011, giorno del mio compleanno, lo spread sale fino a 575 e i rendimenti dei BTP sfiorano l'8%, un tasso insostenibile per il sistema.
Dopo qualche sfiatata resistenza, nel primo momento in cui è davvero messo alla prova, Berlusconi si dimette, congedato dai canti di gioia d'una folla incredula e festosa radunatasi davanti al palazzo del Quirinale, condannato ad andarsene tra lazzi e fischi e a essere ricordato come il Mangiafuoco dei nostri ultimi giorni di vacanza nel Paese dei Balocchi, la terra felice e sedata in cui abbiamo vissuto fino a oggi: l'Italia in cui tutto è in frantumi e danza, come vagellava Jim Morrison.


Entra in scena Mario Monti, il Cavaliere Bianco della Globalizzazione, il Professore dei Professori, il Salvatore della Patria, invocato e voluto e osannato e nominato prima senatore a vita e poi, dopo qualche giorno, presidente del Consiglio. Spalleggiato da ogni televisione e ogni giornale e ogni radio d'Italia, incredibilmente e incrollabilmente sostenuto in parlamento sia da un Popolo della Libertà frastornato sia da un Terzo Polo plaudente sia da un Partito Democratico entusiasta, si mette a telefonare ai suoi amici e forma in quattro e quattr'otto un governo di tecnocrati semisconosciuti che viene accolto da una salva di applausi assordante e pressoché unanime, e riscuote alle Camere una fiducia di dimensioni mai viste, perché quasi nessuno ha il coraggio di votargli contro, e in due settimane presenta una manovra fatta quasi solo di tagli e di tasse dal sapore antico, che si dirige esattamente nel senso contrario rispetto a ciò che servirebbe alla crescita dell'economia reale.


Poi il Professore dei Professori va in televisione e giustifica la durezza della manovra - accolta con giubilo dai mercati che, sia chiaro, accoglierebbero con giubilo anche una patrimoniale del cinquanta per cento e l'abolizione dello Statuto dei Lavoratori - raccontando con la solita gelida compostezza appena appesantita da qualche goffaggine una serie di enormità fors'anche possibili, ma di certo impossibili da smentire perché non sottoponibili a controprova: che senza la sua manovra l'Italia sarebbe diventata come la Grecia, che non ci sarebbero stati i soldi per pagare gli stipendi alla fine del mese e, dopo qualche stolido secondo di pausa, come a ripetere una lezione imparata, nemmeno le pensioni. Che, se ancora non ce ne siamo accorti, lui sta salvando l'Italia. Della crescita si occuperà in futuro. Applausi.
L'ironia sul passato Al G8 di Cannes Berlusconi dice che l'Italia è ricca perché i ristoranti sono pieni: in quel momento è tutta la politica che impazza e poi si scioglie

Edoardo Nesi28 febbraio 2012 | 7:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

TAV, il profumo dei soldi



Tav: e parliamo di questa democrazia


Sulla Tav molti purtroppo parlano solo perché hanno la lingua in bocca.

Ad iniziare da quelli che dicono che non sarà un gruppo di facinorosi a fermare la democrazia. A questi vorrei ricordare che quel “gruppo di facinorosi” sta difendendo non solo la valle, ma le finanze dello Stato. Chi non si è ancora letto l’ultimo libro di Ivan Cicconi sull’alta velocità è pregato di farlo, e così capirà quale voragine l’alta velocità rappresenti per i conti dello Stato, senza nessun vantaggio concreto per la collettività, ma in compenso molti, enormi danni, oltre che per le finanze pubbliche, per l’ambiente.

E poi è ora di finirla anche con questo tabù, “democrazia” di cui ci si riempie la bocca. In una democrazia non necessariamente chi legittimamente ha il potere fa le cose giuste. E’ forse giusto in un paese come l’Italia non fare prevenzione idrogeologica? È forse giusto continuare a costruire in ogni dove? Sono forse giusti gli inceneritori? O i porti turistici che sempre più devastano i nostri litorali? Eppure questa è democrazia. Ebbene, io dico che in questa democrazia, spesso la ragione ce l’hanno le minoranze, e non già chi democraticamente governa. E dico anche che chi tutela un territorio o la salute tutela il territorio di tutti e la salute di tutti.

E poi smettiamola per carità di pensare che la democrazia operi nella legittimità. Per realizzare l’alta velocità ferroviaria si sta andando avanti con atti che noi legali riteniamo tutti perfettamente illegittimi. Ordinanze prefettizie che non stanno in piedi, delibere Cipe che non dovrebbero autorizzare e invece autorizzano, e così via. Insomma, ficchiamocelo bene in testa, la democrazia può anche imporsi con l’illegittimità.

E veniamo a Luca Abbà. Ho letto anche qui cose vergognose e proprio anche su queste pagine. Gente che dice che ha fatto una fesseria, e quant’altro. Non pensate che il suo sia stato il gesto estremo di chi non vede reale democrazia intorno a sé? Non pensate che per arrivare a rischiare la vita devi avere dentro di te un grande ideale? Ecco, l’ideale, questo io vedo spesso muovere le minoranze. In chi democraticamente governa vedo invece quasi solo il profumo dei soldi.

Decrescita Donne Democrazia




Siamo alla fine di quale tempo?



di Pier Luigi Fagan, da Megachip

Siamo sicuri che ciò a cui stiamo assistendo negli ultimi anni, la crisi economica e civile drammaticamente esplosa in tutto il pianeta, possa configurarsi come il prodromo della fine del Capitalismo e dell'intera Era moderna? Come può l'archeologia, la storia delle migrazioni umane e la demografia aiutarci a comprendere la complessità della transizione "epocale" che stiamo vivendo?

In questo interessantissimo articolo, Pier Luigi Fagan tenta di dare delle risposte a questi ed altri interrogativi in una prospettiva storica di "longue durée". Il quadro risultante dalle sue analisi è estremamente efficace ed originale, e getta le basi per un ripensamento critico di alcune strutture interpretative consolidate dal pensiero moderno, offrendo al tempo stesso gli auspici per affrontare l'inevitabile cambiamento imposto dall'avvento di una nuova Era della "Grande Complessità".




Slavoj Žižek, filosofo contemporaneo, acuto lettore del presente occidentale , ha scritto il suo “Vivere alla fine dei tempi” [1] in cui si domanda non “se” siamo alla fine del capitalismo, ma “come” gestire la nostra transizione in questo delicato passaggio. La sensazione che aleggia sempre più nel dominio delle opinioni, lo Zeitgeist della nostra epoca, è che abbiamo l’impressione che stia finendo un tempo. Ma quale tempo? Iniziato quando? Lungo quanto? Quale significato sta finendo e cosa c’è dopo? Lo storico francese Fernand Braudel ci invitava a contestualizzare i fenomeni che noi reifichiamo in date simbolo (la nascita, la morte) lungo l’asse del tempo lungo, scomponendone le parti per capire, quando e perché iniziò quella cosa che poi portò a quell’altra cosa che infine compose il fenomeno.

A Braudel, ad esempio, pareva che il capitalismo cominciasse ad iniziare con la nascita della borghesia e la nascita della borghesia con la nascita dei borghi, cioè in Italia intorno all’anno 1000 o poco più. A Max Weber pareva, che il capitalismo iniziasse con l’affermazione della razionalità economica, con l’affermazione del “numero-peso-misura” e della contabilità, con la previsione razionale di costi, tempo e profitti, ciò che più o meno andò condensandosi nell’Italia del 1400. A molti, tra cui i rappresentanti della scuola sistemica come Giovanni Arrighi e Immanuel Wallerstein, parve che l’inizio del capitalismo si datasse al secolo successivo, il secolo delle Grandi Navigazioni, delle Grandi Scoperte ma in definitiva anche quello dell’inizio della propensione imperiale dell’Occidente. Poco più in là, con le enclosures inglesi già condotte ai tempi di Elisabetta I, Karl Marx pone l’accumulazione originaria premessa del capitale che poi dà vita alla sua riproduzione costante in quel sistema che noi chiamiamo capitalismo ma che Marx chiamava “modo di produzione borghese”, ovvero rapporto sociale connesso ad un determinato modo di produrre la – sussistenza - che, secondo il tedesco, era il perno della costituzione societaria, del perché gli uomini si mettono insieme in comunità. Secondo questa linea interpretativa che in un certo qual modo accumuna, anche se con considerazioni diverse sui tempi, Marx e da lui Weber, Braudel, Wallerstein, la Modernità è consustanziale al capitalismo e la fine dei tempi, sentita da Žižek, quel profumo dolciastro di decomposizione incipiente che stiamo respirando ogni giorno di più, sarebbe la fine del capitalismo ( quindi della Era moderna ) o quantomeno di molte delle sue determinazioni strutturali. Sicuri?

Facciamo allora un salto da una altra parte per assumere un fatto nuovo, utile per la ricerca di una risposta alla nostra domanda inziale, un salto che ci porta al confine tra Turchia e Siria dove troviamo un fatto archeologico. Di che fatto si tratta? L’uso di lenti monocrome, ovvero la nostra propensione culturale a guardare il mondo ed i fatti che lo manifestano con le lenti disciplinari monodimensionali, ad esempio solo l’economia, solo la sociologia, solo la storia, porta a vedere alcune cose (anche con estrema precisione) ma non altre. Capita così che saltare da Marx all’archeologia possa esser per alcuni monovedenti, disturbante, sebbene l’archeologia dell’ultimo secolo debba molto proprio ad un convinto marxista, Vere Gordon Childe, il quale, in ossequio alle premesse dell’immagine di mondo storico-materialista, andava cercando proprio i modi di produzione come struttura condizionante della socialità, socialità che era riflessa ad esempio nell’urbanistica e nella topografia dei siti, che come archeologo, Childe [2] doveva e voleva andare a scoprire ed interpretare. Ma non divaghiamo, andiamo in Anatolia a prendere visione del nostro fatto archeologico.



Siamo in un posto che si chiama Göbekli Tepe [3]. Qui, a partire dalla casuale scoperta di un pastore curdo che vede affiorare gli spigoli ben definiti di grandi pietre squadrate, iniziano gli scavi di quella che ancora non si è capito se definire “la più importante scoperta archeologica” degli ultimi 30, 50 o 100 anni, quindi più o meno di sempre.

Dal 1995 ad oggi, gli scavi di Göbekli Tepe hanno restituito ben 40 monoliti, alti in media 3 metri per 10 tonnellate cadauno, fatti di una lastrone squadrato posto in verticale e di un lastrone squadrato posto in orizzontale in cima all’altro (o scavati come blocco unico a forma di T). I monoliti sono ornati da incredibili bassorilievi con figure animali e sono posti l’uno accanto all’altro in cerchi, si contano allo stato attuale degli scavi 4 diversi cerchi. C’è anche un monolite solitario della ragguardevole altezza di 7 metri.

Ma il bello è che analisi geomagnetiche del terreno sottostante, dicono che lì sotto, di pietroni squadrati ce ne sono almeno altri 200! Analisi del terreno ci dicono che quando questo incredibile complesso fu fatto (e per il momento, per amore del colpo di scena, non rivelerò questo “quando”) lì, diversamente da oggi che è una brulla e inanimata pietraia, c’erano boschi, prati, fiumi e laghetti e un clima paradisiaco.

Però, a Göbekli Tepe non ci viveva nessuno, il monumentale complesso che portò probabilmente via dai 3 ai 6 secoli di ininterrotto lavoro di centinaia, se non migliaia, di lavoratori, artigiani, mastri, artisti e chissà chi altro, era un sito simbolico.

Non sappiamo, né ai nostri fini ci interessa, stabilire se fosse un sito religioso, astronomico, politico, di scambio mercantile, culturale o quant’altro o tutte queste cose assieme.

Ci interessa solo sottolineare tre cose:

1) non era una città ma un sito a sé;

2) doveva presupporre una massa di persone organizzate che lo costruirono per lungo tempo ed una ben più grande massa di persone che lo utilizzavano per cerimonie di chissà quale tipo;

3) tutto ciò è stato fatto in un tempo in cui le nostre precedenti cognizioni antropologiche, storiche, archeologiche non prevedevano che ciò potesse esser stato fatto.

Göbekli Tepe fu infatti fatto a partire dal 10.000 a. C. e fu completamente interrato volontariamente, seppellito sotto tonnellate di terra da riporto, entro l'8000 a.C.. Qui c’è il fatto che c’interessa. E ci interessa perché l’agricoltura occidentale, nasce negli stessi luoghi (la famosa Mezzaluna fertile) ma, qualche secolo – dopo – l’interramento di Göbekli Tepe!

E allora? Allora non è vero come abbiamo sin qui creduto, che scoprendo la nuova tecnologia della sussistenza, la cura intenzionale del ciclo semina – cura – raccolto che chiamiamo agricoltura, abbiamo dato vita alla Rivoluzione neolitica, alla nascita delle prime società complesse, stanziali, urbanizzate, sociali, con produzioni delle élite, la divisione del lavoro e tutto il resto della nostra consolidata, precedente narrazione. Non è dall’agricoltura che nascono le società complesse ma è dalle società complesse che deriva l’agricoltura.

Molti di voi, forse, non apprezzeranno appieno il significato di questa inversione dei fattori causativi, ma è invece piuttosto importante, anche perché oltre ad aprire a completamente nuove visioni sul chi siamo, risolve anche alcuni problemi, tra cui la comparsa semi sincronica dell’agricoltura in luoghi così distanti da far escludere lo scambio delle informazioni (Mezzaluna fertile, Valle dell’Indo, Cina), problema che ha a lungo, angustiato gli studiosi.

Göbekli Tepe fu costruita da tribù nomadi o meglio, seminomadi, tribù diverse le une dalle altre, probabilmente federate in un territorio comune che gli studiosi stimano di un raggio di almeno 100 km, al centro del quale costruirono il sito simbolico e nel costruirlo assieme e nell’utilizzarlo assieme lungo un arco di tempo di più di 3000 anni, crearono un sistema sociale complesso, molto complesso a giudicare da ciò che crearono ed a prescindere dalle supposizioni che possiamo fare sul suo utilizzo [4].

La complessità sociale dunque, discende da prima dell’agricoltura che fu un adattamento e non principio primo di causazione. Da dove veniva questa complessità sociale paleolitica che poi transitò nel Mesolitico e da qui al Neolitico e poi ai Metalli ed alle epoche storiche che culminano con la nostra Modernità? Probabilmente da un semplice incremento della densità abitativa (per quanto ancora basata su caccia e raccolta o micro agricoltura selvatica) ovvero da un semplice “sbuffo” demografico.

Che cos’è uno sbuffo demografico? Per la legge degli incrementi proporzionali (geometrici e non aritmetici, cioè 3,6,12,24 e non 3,6,9,12) ad un certo punto, la densità umana in un dato territorio raggiunge soglie critiche [5] che danno vita a nuovi fenomeni, nuovi modi di organizzare l’adattamento umano o visto dagli occhi umani, di “autorganizzarsi”. Uno dei principali motori della storia umana, non è il genio o l’invenzione, non è la tecnologia o la scoperta, non è la lotta tra classi al fine dell’organizzazione della sussistenza, ma tutte queste cose si mettono in moto quando diventiamo improvvisamente tanti in un territorio in cui prima eravamo pochi. Cambia la nostra richiesta adattiva e rispondiamo a questa richiesta inventando nuovi sistemi, migrando, agitandoci, inventando ciò che ci serve per rispondere a questa richiesta. Questa richiesta proviene da un problematico rapporto uomo – natura e l’uomo reagisce innovando la società che è il veicolo adattivo col quale l’uomo gestisce i suoi rapporti di adattamento con la natura.


Il contributo della “sbuffo” demografico alla storia umana è molteplice. L’Occidente nasce dall’unione conflittuale, tra una pacifica società agricola e stanziale posta dove oggi c’è l’Europa dell’Est e popoli nomadi e semi nomadi, patriarcali, armati ed a cavallo, cacciatori, allevatori e guerrieri che chiamiamo con il termine collettivo di “popoli indoeuropei”. Gli indoeuropei, ad un certo punto imprecisato intorno al 4000 a.C., presero a migrare [6] violentemente dal centro Asia in direzione dell’Europa, ma anche dell’Anatolia (gli Hittiti) e poi in Siria (i Mitanni), fors’anche in Egitto (gli Hyksos); dell’altipiano iranico e da qui spingendo le precedenti popolazioni iraniche verso la Mesopotamia (i “misteriosi” [7] Sumeri) anche verso la Valle dell’Indo portando la loro religione (i Veda), la lingua poi diventata scrittura (il sanscrito) e contribuendo a creare la tradizione indica del nord. Forse andarono anche in Cina ma lì la storia diventa ancor più congetturale e la lasciamo sfumare senza precisarla.

Più tardi, altri popoli centro asiatici di lingua turca, migrarono e si installarono in Anatolia facendola diventare Turchia. Popoli greci migrarono in Anatolia e da qui in Italia. I Celti austro-svizzeri se ne scapparono sino all’Irlanda. I popoli anglosassoni, poi danesi, poi vichinghi, migrarono per sbuffo demografico verso l’Inghilterra dando vita appunto alla Terra degli Angli (gli Angli erano un popolo danese, da cui l’interesse di Shakespeare per l’amletico “c’è del marcio in Danimarca”). Uno sbuffo demografico ma anche cultural-politico dei puritani dell’Inghilterra del ‘600 portò gli anglosassoni, seguiti da scozzesi ed irlandesi, a fondare gli Stati Uniti d’America e così via.


Allora? Allora, sembrerebbe che le ere macroscopiche del nostro profondo passato si dividevano in due ed oggi stiano dando vita alla terza.

La prima fu quella della bassa densità paleolitica, la seconda fu quella dell’avvento della complessità in cui gli uomini, prima presero a formare interrelazioni complesse pur mantenendo uno stile di vita semi nomade [8], poi si fermarono dando vita a villaggi, città, regni, imperi, stati nazione, costruendo società ordinate dal principio gerarchico, organizzate intorno alla sussistenza protetta dal fatto militare, gestita dal fatto politico, ordinate da quello giuridico, società omogeneizzate e consolidate dal fatto culturale e da quello religioso


Oggi, questa forma di adattamento dei tanti umani nello spazio planetario è giunta ad una nuova discontinuità. Nell’ultimo secolo siamo passati da “soli” 1.500 milioni di individui a circa 7.000 milioni, mai si era registrato un incremento così deciso in un sì breve tempo. I tempi che stanno finendo e di cui respiriamo il dolciastro odore di morte, sono quelli dell’era delle società complesse che erano arrivate ad un ordine del mondo, con una parte, l‘Occidente, a dominio e sfruttamento di tutto il resto del pianeta. Poche nazioni (una mezza dozzina capitanate da due: UK e USA) dominavano tutte le altre (quasi duecento). Così non sarà più e quando fra 2-3 anni la Cina svetterà solitaria in cima alle classifiche del Pil (e vedrete che sarà la buona volta che in Occidente si deciderà di non usare più il Pil come dato sintetico del valore di una nazione) sarà chiaro a tutti che una era è finita.

Ma come sarà la nuova era, l’Era della Grande Complessità, ora che non possiamo più migrare o ammazzarci tutti, l’un con l’altro?

Si possono esprimere degli auspici. Io spero sarà l’era delle tre D.

La prima D è quella della Decrescita del fatto economico, una riduzione dell’importanza e del peso della produzione, dello scambio e della banco finanza nell’ordinare le nostre società (cosa che comporterà necessariamente una perdita del principio di accumulazione come senso delle nostre brevi esistenze e di conseguenza una larga redistribuzione). Questo sistema è una macchina che divora tempo, spazio, energia e materia senza limiti e senza fine procedura. Un processo che non prevede la sua terminazione. In un pianeta affollato da 7, prossimi 9-10 miliardi di individui, mettersi tutti ad usare una Macchina Economica così settata come sistema adattivo, significa creare le premesse per il disastro ecologico, il collasso sociale, il big bang militare del bellum omnium contra omnes.

La seconda D è quella delle Donne, l’altra metà del cielo o meglio, una delle due metà del Tutto umano. L’assetto rigidamente gerarchico di un genere a dominio dell’altro è stata la risposta semplificante alla prima complessità. La Grande Complessità a cui andiamo incontro non è ordinabile da una sclerosi così innaturale, imposta dal dominio del testosterone bellico. In sistemi iper complessi o c’è interazione totale e simmetria diffusa o non c’è modo di trovare strutture di ordine autoorganizzato, funzionale all’adattamento. Nel nostro caso l’ordine dovrà essere adattivo, poiché ricordiamocelo sempre, il nostro problema è come stare in tanti e sempre di più su un singolo pianeta dai confini fisici definiti ed anelastici, nel mentre la natura trascorre il tempo a cambiare se stessa. Non sarà facile, poiché veniamo da una storia ( quindi una tradizione, quindi una cultura, quindi una immagine di mondo oggi inutilizzabile a fini adattivi ) diversa, in cui eravamo pochi o comunque assai meno di oggi. Non sarà facile in particolar per noi occidentali, poiché non solo proveniamo da una situazione più facile per via dei numeri, ma perché ci facilitammo ulteriormente la vita assoggettando il resto del mondo ai nostri desiderata, ai nostri confort, ai nostri bisogni primari e secondari.

La terza D è quella di Democrazia. Una democrazia che si ricongiunga con la propria semantica lasciando al Libro degli Errori del passato primitivo quell’ircocervo che è la “democrazia di mercato”. Una democrazia diffusa ed a trazione permanente, in cui i tutti sono al contempo attori e registi dell’adattamento al nuovo mondo, non delegando ad altri (le sempiterne élite [9]) ed a un regolamento alieno (ad esempio “il mercato”) il compito di dar ordine alle nostre società. Sistemi ipercomplessi non solo sconsigliano gerarchie di una metà a domino dell’altra, ma consigliano una perfetta circolazione delle informazioni che distribuiscano la percezione dello stato delle cose in tutte le parti componenti del sistema sincronicamente. Solo una ben diffusa percezione dei problemi, una introiezione dei quadri generali ed una conseguente deliberazione maggioritaria delle intenzioni sul “che fare?”, farà di un sistema umano ipercomplesso, un sistema adattiv

Siamo alla fine dei tempi complessi ed entriamo nella nuova era della Grande Complessità. Non sta terminando un’Epoca, sta terminando un’Era. Ognuno dovrebbe partire dal suo territorio, a registrare le proprie strategie adattive, il nostro territorio è quello dell’Occidente continentale per ragioni geo storiche e culturali.

L’ingrediente centrale per una nuova strategia adattiva è: il tempo. Meno tempo per il lavoro e il consumo, più tempo affinché si possano riequilibrare gli investimenti di impegno nella gestione famigliare, amicale, personale, di modo da tendere all’equiparazione funzionale uomo – donna, precondizione necessaria affinché anche la donna possa partecipare (e più in generale se non i “tutti”, almeno i “molti”, possano partecipare) a quell’altra attività che si nutre di tempo che è la democrazia partecipata.

Dovremmo cominciare a costruire il nostro Göbekli Tepe, forse un Tempio del Tempo [10], un luogo comune dove non c’è solo l’interesse economico, dove la differenza relativa di genere, di anagrafe, di opinione, di tradizione culturale, crea ricchezza e non gerarchia, dove gli individui si pongono in cerchio a parlare, discutere, scambiare idee per poi decidere tutti assieme come si sta nel mondo dei nuovi tempi, la nuova Era della Grande Complessità che ci viene incontro a grandi falcate.

[1] Žižek Slavoj, Vivere alla fine dei tempi, Milano, A. Salani editore, Ponte alle Grazie, 2011

[2] E’ di Childe il concetto assai fertile e longevo di “Rivoluzione neolitica” ovvero quell’insieme di sedentarizzazione, innovazione agricola, gestione delle eccedenze, élite e gerarchie che spesso si pone all’inizio del nostro lungo tempo.

[3] http://it.wikipedia.org/wiki/G%C3%B6bekli_Tepe; Schmidt K., Costruirono i primi templi, Oltre edizioni, 2012

[4] Sulla teoria del centro di gravità di tribù disperse in un vasto areale, di veda anche Lewis Mumford, La città nella storia, collana: Tascabili. Saggi; 3 volumi, Milano, Bompiani, 2002

[5] La soglia critica è data dal rapporto tra contenuto e contenente, cioè tra popolazione e territorio.

[6] In realtà non sappiamo perché. Lo sbuffo demografico ovvero l’improvvisa eccedenza demografica può provenire tanto da un incremento critico della popolazione, quanto da un rimpicciolimento del territorio. Per rimpicciolimento del territorio intendiamo ad esempio un mutamento climatico che modifica l’ecologia di un dato sistema, che sembra impoverirsi di ciò che prima costituiva la sua struttura, struttura di cui alcuni popoli vivevano e di cui non possono viver più, motivo che li spinge a migrare.

[7] La nostra immagine di mondo traviata dal computo del tempo basato sull’anno 0, una arbitraria convenzione imposta dal cristianesimo e dall’Occidente al mondo intero, tende a svalutare tutto ciò che fu prima di allora. Questa visione implicita del mondo, è assunta anche da molti critici della Modernità, del capitalismo, dello spirito occidentale. Capita così che, quando si scoprono cose molte antiche frutto della sorprendente complessità umana, molti abbiano gioco facile a rubricarle come “inspiegabili”. La misteriosità chiama magia, mitologie impastate con metafisica o in sub ordine gli alieni, i rettiliani, forze superiori (gli “illuminati” vengono dopo, ma sono fatti della stessa confusa sostanza neo platonica). Chi interpreta questi fatti rovistando nel circo magico dell’improbabile è di solito un anglosassone, si veda History Channel della piattaforma Sky-Fox dell’australiano Murdoch, piuttosto che i vari autori del mistero in forma di best seller. Il vero mistero è perché qualcuno continui a dare retta a questi cialtroni. La cialtronaggine misterica fa da pendant nella tradizione anglosassone, all’ossessione per l’oggettività scientifica, le due cose vanno assieme, compensandosi. Del resto è noto che anche Newton fosse un alchimista con propensioni misterico – teosofiche.

[8] Le grotte paleolitiche dipinte, tra cui le francesi Chauvet (-32.000 af), e Lascaux, Altamira in Spagna, svolsero probabilmente lo stesso ruolo di “in comune” tra antichi clan e tribù seminomadi che vivevano separate, ma culturalmente connesse.

[9] Secondo il buon Dumézil, i popoli indoeuropei sono i primi a strutturarsi secondo il principio d’ordine delle élite, principio che poi impongono, con la forza, a tutti i popoli che invadono, condizionandone l’evoluzione. La scoperta che esistono le élite, da parte di certi critici del neo liberismo contemporaneo, come se fosse questo ad averle inventate, mostra l’ingenuità dell’approccio culturale con cui guardiamo i complessi fatti del mondo. L’aristocrazia terriera, militare ed ecclesiastica medioevale non era una élite? L’aristocrazia e il patriziato romano? Gli imperatori e i re dell’antichità greca ed ancor più profonda? i sacerdoti egizi? La lettura di un buon libro di storia dovrebbe sempre precedere i nostri approcci interpretativi prima di lanciarci nel dilettantismo furioso.

[10] Brand, Stewart, Il lungo presente, Fidenza, Mattioli 1885, 2009.

I moderati feroci





Moderati a bastonate

di Alessandro Robecchi, dal manifesto

Gentili signori. Grazie per esservi iscritti al nostro corso «Diventa moderato in tre lezioni e, se serve, a bastonate». Lasciate che vi presenti i tre relatori e le linee guida del loro pensiero.

Sergio Marchionne ci spiegherà che essere moderati aiuta. Per esempio aiuta a lavorare alla Fiat di Pomigliano. Come fare? Semplice: promettendo investimenti in cambio di un accordo. Poi, firmato l'accordo, fare il gesto dell'ombrello e scordarsi di aver mai pronunciato la frase «venti miliardi di investimenti». In presenza di sindacati moderati particolarmente ottusi che se ne scordano anche loro, il gioco può essere ripetuto. O si esporta in Usa o si chiudono due fabbriche. Funziona. Davanti a un cazzotto in faccia, infatti, l'estremista pensa: «Ehi, perché mi picchi?», mentre il moderato pensa «Beh, poteva andar peggio, poteva spezzarmi una gamba».

Elsa Fornero, ministro del lavoro, sa che la maggior parte dei lavoratori sono licenziabili anche per motivi discriminatori, mentre alcuni no perché protetti dall'articolo 18. Estenderlo a tutti, dunque? Siete pazzi? Un vero moderato dirà: prima leviamolo a tutti (fase uno) e poi diamo degli ammortizzatori sociali (fase due). Quando si scoprirà che per la fase due non ci sono soldi, i moderati che ci sono cascati dovrebbero spararsi in un piede, ma non lo faranno, perché essi detestano i gesti estremi. È un altro pregio dei moderati: sparano sempre a qualcun altro.

Mario Monti ci parlerà invece della moderazione per sottrazione. Avendo in programma di comprare 131 cacciabombardieri, avrebbe potuto dire «Annulliamo l'ordine». Ma l'estremismo non paga, amici, e così ha deciso che ne compreremo «soltanto» 90. Quando i soliti fastidiosi estremisti chiederanno: «Che cosa cazzo ce ne facciamo esattamente di 90 bombardieri?», i moderati potranno soavemente rispondere: «Ma non siete mai contenti!».
Grazie. Il nostro corso finisce qui. La retta? Tranquilli, avete già pagato.

L'ultima genialata di Carlo Miccio

Spiegatelo a Cacciari


1)Perché sono dalla parte degli ultimi
2)Perché amo la pace
3)Perché ripudio la guerra
4)Perché per me la Patria è il Mondo intero
5)Perché per me il lavoro è sacro
6)Perché non sopporto le ingiustizie
7)Perché difendo le mie idee e rispetto quelle degli altri
8)Perché combatto la prepotenza
9)Perché non sopporto l'intolleranza
10)Perché compatisco gli ignoranti
11)Perché disprezzo gli egoisti
12)Perché è sempre esistita una sinistra
13)Perché la sinistra è il contrario della destra
14)Perché voglio la libertà
15)Perché voglio socializzare la felicità

ECCO PERCHE' SONO DI SINISTRA

di Marino Castelnovo, da FB

VALSUSA: LUCA ABBA' CADE DAL TRALICCIO FULMINATO







Sto guardando e seguendo quello che sta succedendo. Un ferito grave in val di Susa, l'accerchiamento della baita con persone dentro. Di nuovo violenze. Uno è caduto da un traliccio ed è grave in ospedale. A chi servono queste cose? Perché, porca di una puttana, io vorrei capire cosa c'è dietro questo sistema! Lo capirebbe anche un bambino che non serve la Tav: un tunnel di 50 km sotto un monte. Sono contro anche il partito di Sarkozy e la Corte dei Conti francese. Sono cifre che non stanno in piedi. Progetti di 15-20 anni fa. Quando le merci giravano. Oggi i camion sono vuoti. Si spostano container vuoti. È la fantascienza dei trasporti. Il nostro mondo è questo. E allora perché mandano avanti la politica, Fassino, i magistrati. Perché? Chi c'è dietro? Le banche? Perché hanno questi interessi le banche? Dove vanno a finire questi soldi? A chi? 1,2 miliardi di finanziamento e poi, gli altri? Non si sa. In un momento così disastrato con questi 22 miliardi, che è quanto verrebbe a costare l'opera, potremmo finanziarci la banda larga, potremmo finanziare la Rete, fare progetti di sviluppo. Dare lavoro a piccole e medie imprese. Perché fanno queste cose qui? È il momento di capire, capire! Perché dopo la TAV ci saranno il terzo valico, le gronde, il ponte sullo Stretto. Opere faraoniche per il rilancio della crescita. Non c'è crescita in questo settore. La crescita è dell'intelligenza.
Mandiamo a casa questa gente. Vi prego, vi prego! Prima che scoppi un casino ancora più grosso.
Adesso seguiremo e vi daremo notizia di quello che sta accadendo. Robe da pazzi!


di Beppe Grillo, dal suo blog

domenica 26 febbraio 2012

Ahimè


Perché Monti piace

di Flores d'Arcais, da Il Fatto Quotidiano

A parte il “Te Deum” travestito da comunicato stampa che ieri Palazzo Chigi ha elevato a se stesso, è un fatto che il governo dei “tecnici” sia popolare, soprattutto quando prende provvedimenti che nessun governo dei partiti, di “destra” o di “sinistra”, oserebbe proprio per tema di impopolarità, come il secco “no” di Monti alle Olimpiadi. Popolarità che non viene meno neppure quando i singoli provvedimenti vengono bocciati, magari a raffica, nei sondaggi. Come nel caso della mazzata ai pensionati. Azzarderei che continuerà così perfino se il provvedimento sul mercato del lavoro fosse altrettanto iniquo.

Schizofrenia del cittadino italiano? Niente affatto. In questa “follia” c’è una logica, addirittura stringente: l’esecutivo è popolare perché è un governo senza i partiti, e tanto più sembrerà umiliare i partiti e costringerli a qualche canossa, tanto più la popolarità andrà alle stelle. I partiti sono oggi, meritatamente, nella feccia del gradimento pubblico, a un degradante 4% secondo l’ultima inchiesta demoscopica. Questo governo è popolare, insomma, perché vissuto come “antipolitico”, benché in realtà non sia neppure antipartitocratico.

Non a caso le nomenklature dei due schieramenti cominciano a preparare l’Opa per acquisire Monti e/o Passera alla testa delle rispettive coalizioni, come belletto per tornare appetibili presso elettori altrimenti infuriati. Con effetti assolutamente asimmetrici rispetto ai due grandi “mondi” in cui si divide la società civile. Mentre infatti il mondo dell’establishmente del privilegio trova nei Monti, Passera & Co. la sua terza metamorfosi, che gli garantisce la continuità dell’egemonia e del potere (centrismo e centro-sinistra fino al Caf, populismo eversivo con Berlusconi, e ora liberismo eurotecnocratico: soluzioni diversissime, ovviamente), il mondo della riforma “giustizia e libertà” scompare dalla scena politica anche in prospettiva, poiché i partiti del centro-sinistra, con tutti i loro dirigenti, non potranno mai risalire la china di un disprezzo che li bolla senza appello, più che giustamente.

Ogni “parte”, per vincere politicamente, deve sapersi presentare come “interesse generale”. Il mondo del privilegio oggi ci riesce con Monti-Passera (nume Napolitano) dopo aver disarcionato l’impresentabile putiniano di Arcore. Il riformismo “giustizia e libertà” no, malgrado il programma ci sia e una potenziale maggioranza di opinione anche, perché incapace di pensionare tutta la zavorra partitocratica e sostituirla attingendo alla società civile, alla Fiom, al giornalismo “schiena dritta”.

Il Fatto Quotidiano, 26 Febbraio 2012

CHIU PIL PI TUTTI!


CHIU PIL PI TUTTI!

Nella distrazione di tutti (tutti!, socialisti europei inclusi), l’ex governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, oggi al vertice della BCE, ha detto che l’Europa sociale è finita. Così, senza nemmeno un rimpianto, un preavviso di lutto, un dubbio. Abolita l’agenda di Lisbona, stracciato il libro bianco di Delors, tramontata l’aspirazione di fare dell’integrazione europea un processo capace di redistribuire in Europa diritti, opportunità, equità, occupazione. Conta la moneta. Contano i crediti delle banche e l’obbedienza dei debitori. Contano gli indici di produttività. E basta. La nuova Europa nascerà su un nuovo motto: più Pil per tutti. Claudio Fava.

venerdì 24 febbraio 2012

La gaffe di Draghi nell'intervista al WSJ



Nella sua intervista/gaffe al Wall Street Journal, Draghi- gaffeur svela il piano dei governanti "tecnici" della Goldmann Sachs: uccidere definitivamente lo stato sociale europeo.


Draghi: "Lo Stato sociale è morto". Anzi no.

Galapagos, dal manifesto

Il Corriere lancia una farse di Draghi, riprendendo l'Ansa: "Lo stato sociale è morto". Poi il contro ordine: "un errore di traduzione". In ogni caso nell'intervista mal tradotta il presidente ritiene che vada "ridimensionato"

«Lo stato sociale europeo è morto». E chi lo dice? Mario Draghi, presidente della Bce. O meglio, lo ha scritto il sito del Corriere della sera che - a quanto ci hanno detto - ha ripreso un lancio dell'Ansa. Dopo una quarantina di minuti c'è stato un contrordine: l'Ansa aveva tradotto male una intervista di Draghi al Wall Street Journal e il Corrierone aveva abboccato. Insomma, lo stato sociale europeo non è morto, ma non è che se la passi troppo bene. E Draghi vuole dargli una bella botta. Perché, anche se l'ultima crisi ha dimostrato che lo stato sociale «è tutt'altro che morto» (questa la traduzione corretta) occorre ridimensionarlo tenendo conto del mondo che cambia.
Anche perché - sostiene Draghi - «è duro dire se la crisi è finita», ma anche perché cavalieri bianchi in vista (il riferimento è ai capitali cinesi) non se ne vedono. Risultato: l'Europa si deve salvare da sola. E la ricetta suggerita dal presidente delle Banca centrale europea non ammette equivoci: occorre un piano generalizzato di privatizzazioni/liberalizzazioni e un profondo riassetto del mercato del lavoro. Insomma, è tutto il sistema sociale europeo che deve cambiare adattandosi ai tempi.
Per Draghi l'Europa non è più il mondo di Bengodi, quello del welfare «dalla culla alla tomba», come si diceva un tempo con riferimento soprattutto ai paesi nordici. C'è una risposta di Draghi che illustra perfettamente questa posizione. Rivolgendosi all'intervistatore, Draghi afferma: «Come lei sa c'era un tempo nel quale l'economista Rudi Dornbusch era solito affermare che gli europei sono così ricchi che si possono permettere di mantenere chiunque per non lavorare». E conclude: «Questo tempo è finito». Sia ben chiaro, Draghi non è un forcaiolo, ma esprime (piuttosto bene) un concetto caro alla attuale classe dirigente europea: tutti devono lavorare e devono lavorare fin che morte non sopraggiunga. O quasi. Non a caso la riforma delle pensioni di Monti-Fornero si muove lunga questa direttrice e non è un caso che sia piaciuta tanto agli altri governanti europei.
Siamo di fronte a un progetto generale di cambiamento della vita di centinaia di milioni di persone. Il tutto secondo la logica di una piramide che vede al vertice gli intoccabili. Ovvero la finanza. Certo, Draghi ha fatto proposte per cercare di democratizzre un po' il settore finanziario, ma una volta al vertice della Bce è stato «costretto» a intervenire massicciamente per dare ossigeno (centinaia di miliardi di euro) alle banche. Ossigeno, invece, non ce n'è per le famiglie e per migliaia di imprese medio piccole, soffocate dalla mancanza di credito e soprattutto dalla mancanza di lavoro, da una disoccupazione dai numeri giganteschi in moltissimi paesi.
Pensare che basti la flessibilità assoluta nel mondo del lavoro, mandare i pensione la gente più tardi, privatizzare e liberalizzare ogni attività possa portare il sistema globale a una nuova epoca d'oro è errato. Draghi dovrebbe saperlo bene: l'unico periodo felice nel mondo fu (relativamente) nel dopoguerra quello dell'applicazione delle ricette keyesiane, della diffusione dello stato sociale che oggi vorrebbe ridimensionare.

martedì 21 febbraio 2012

La civiltà della terra e degli animali




Un pomeriggio nel passato e nel futuro in una cascina, fuori dall'incubo urbano e dall'inquinamento di una città. La permacoltura è il ricordo di un tempo più felice in cui la terra, l'uomo e gli animali non erano diventati ancora prodotti finanziari. Ed è il futuro. Adotta un orto, ti cambierà la vita.


Intervista a Irene Di Carpegna Brivio e Anna Morera Perez della Cascina Santa Brera. Dal blog di Beppe Grillo.



Avere cura della terra


Ciao amici sono Irene, sono la proprietaria di Cascina Santa Brera, vi racconto un po’ quello che abbiamo combinato qui con il nostro progetto di Permacultura e di utilizzo sostenibile della terra.
Il bello di questo posto come dicono chi viene a visitarlo è che essendo vicino così tanto a Milano hai uno shock spazio – temporale quando ci entri perché sembra di essere in un altro tempo.Qui abbiamo il frutteto, dove abbiamo un sacco di alberi di tutti i tipi, di varietà di frutta diverse, la maggior parte antiche, poi più avanti i ricoveri invernali dei maiali con uno spazio esterno per pascolare perché hanno bisogno di muoversi, hanno bisogno di grufolare anche appena si libera un po’ il tempo, quindi hanno bisogno di spazio. L’inverno non è il momento migliore per visitare, però anche di inverno si può vedere quello che facciamo.
Alleviamo pochissimi animali proprio per dargli il massimo delle attenzioni e il massimo dello spazio, il massimo del benessere e avere poi dei prodotti di ottima qualità e soprattutto la coscienza a posto di averli allevati in maniera umana.
Le nostre galline sono famose perché fanno delle uova molto buone, ma fanno uova molto buone perché sono trattate molto bene, hanno la possibilità di razzolare in tanto spazio e soprattutto le spostiamo grazie ai carri mobili che abbiamo realizzato, perché trovino sempre da mangiare l’erba, il verme, quello che gli serve e uno spazio pulito dove razzolare. Chiaramente se noi le lasciassimo sempre nello stesso posto si caricherebbe delle loro deiezioni e vivrebbero male e sarebbe anche un problema sanitario come lo è nei grandi allevamenti. Qui vivono in piccoli gruppi, Abbiamo scoperto che più di 120 galline insieme non si riconoscono a vicenda e quindi iniziano a provare aggressività, a litigare tra di loro, fino a 120 si auto-organizzano, creano le loro gerarchie, si dividono i compiti, vanno d’accordo, oltre no. E in più devono avere abbastanza spazio, quindi non c’è bisogno di tagliare il becco alle galline che sono aggressive tra di loro, bisogna dargli più spazio, bisogna dargli meno affollamento, questa è la nostra soluzione eco- compatibile e sostenibile anche per la loro salute, la loro felicità, se così si può dire per una gallina. Gli mettiamo insieme i galli, un gallo ogni 10 galline, non è vero che due galli in un pollaio non possono stare, basta che ogni gallo abbia le sue 10 galline, è questione di organizzazione e di conoscenza, di studio, di osservazione delle loro necessità.
Anche questo modo di allevare le galline è un tassello del nostro progetto di Permacultura, perché la Permacultura prevede la progettazione di insediamenti umani sostenibili, quindi la preoccupazione anche di come ci nutriamo, come ci riscaldiamo, come abitiamo, tutto quanto fatto nel rispetto dei principi etici di avere cura della terra, avere cura delle persone e equa condivisione delle risorse. Allora uno dei metodi anche dei principi di progettazione che si applicano è l’utilizzo delle risorse naturali, per esempio la concimazione. Se tengo delle galline al pascolo in maniera sensata, spostandole, alternandole nel pascolo con i bovini, ottengo il doppio risultato di avere dei prodotti sani da mangiare o che sostengono la nostra economia nel momento in cui li vendiamo e, nello stesso tempo, ho un beneficio per il suolo, perché abbiamo una concimazione organica che ci darà poi in quel campo la possibilità di coltivare in maniera sostenibile, magari cereali, magari altre cose.
Il motivo per cui quest’anno noi facciamo un pascolo in questa zona, mentre gli anni passati era in un’altra zona, dove quest’anno abbiamo seminato frumento. Tutta la sostanza organica lasciata dai nostri animali in quel terreno adesso la utilizziamo per fare i cereali. La Permacultura insegna a mettere in relazione le cose tra di loro, insegna a utilizzare minore sforzo per il massimo del risultato, sempre nel rispetto dei principi etici che dicevo prima.


Gli alberi, il simbolo della Permacultura


Il progetto del nostro orto è nato anche per dare accesso alla terra a chi vivendo in città non ha questa fortuna. La terra è sostegno per noi umani, è la fonte di cibo e poterla frequentare in un luogo non inquinato, non pieno di cacche di cane com’è nei giardinetti di Milano, con un’aria più pulita e senza concimi, senza veleni nell’ariaè un’opportunità secondo me grande che è stata presa, accettata e sposata da molte famiglie che ora frequentano il nostro orto e si sentono a casa qui, liberi di venire a raccogliersi la verdura, di portare i bambini a giocare, di avere uno spazio di verde vicino a casa anche se non si possono permettere la casa in campagna. Questo è il pascolo dove abbiamo seminato il grano quest’anno e dove abbiamo messo degli alberi che devono diventare più grandi perché serviranno a dare l’ombra d’estate al prossimo periodo in cui si pascoleranno gli animali. Noi abbiamo trapiantato più di 12 mila alberi, fatto un bosco in riva al Lambro e riteniamo che piantare alberi sia una delle cose migliori che si possa fare, sia che siano alberi da frutto, la Permacultura per esempio insegna a fare il "food forest gardens", cioè a piantare tutti gli alberi utili che ti danno cibo e che ti danno anche tanti altri prodotti utili: la legna per scaldarsi, per costruire mobili, per costruire gli attrezzi, per fare la carta, per fare ombra, per fare ossigeno, per dare habitat agli animali selvatici, per dare umidità, e quindi pioggia, quando ti serve d’estate. Gli alberi sono il simbolo della Permacultura e della multifunzionalità della natura in cui un elemento svolge sempre più funzioni e le funzioni importanti devono essere svolte da più di un elemento. La Permacultura studia la natura per imparare dalla natura a applicare dei principi che siano produttivi, ma sostenibili, quindi abitiamo, abbiamo bisogno di vivere, abbiamo bisogno di mangiare, bisogno di relazioni sociali, possiamo farlo nel rispetto della terra, nel rispetto di altri esseri viventi, divertendoci, condividendo… è questa la rivoluzione al contrario! Non è una rivoluzione per fare business, ma per vivere in maniera sostenibile, senza sacrificio, sofferenza o rinunce, con un po’ di intelligenza e applicando i principi giusti. E’ un recupero di varietà in estinzione che è autoctona della zona. Si utilizzavano all’epoca le tre funzioni della mucca: per lavoro, per latte e per carne, adesso come non sono specializzate in niente non servono, la grande distribuzione dice che non servono, ma c’è questo programma di recupero e noi le utilizziamo sia per le femmine per recuperare la razza e i maschi… al macello.


Rispetto della terra, del tempo e delle persone


Sono Anna, catalana di Barcellona, lavoro qua in Cascina Santa Brera da tre anni e mi occupo degli orti biologici e la gestione un po’ permaculturale della parte agricola ortistica. In questa installazione vediamo questi ferri, questo è servito per la piantumazione dei pomodori, i pomodori mangiano un sacco di nutrienti allora quello che abbiamo fatto per rispettare la terra è stata una rotazione con i fagioli, abbiamo mantenuto la struttura dei pomodori per piantare i fagioli che portano invece dell’azoto nella terra. In questi orti ci sono diverse modalità di partecipare, c’è questo bellissimo progetto iniziato tanti anni fa che si chiamava “adotta un orto” che è un collettivo di famiglie che si sono associate. Fanno un gruppo da sé e vengono qua a raccogliere la verdura, persone che non hanno tempo per coltivare la terra che però vogliono stare in contatto con la terra. Vengono qua e fanno il loro raccolto in sito, così seguono anche la stagionalità, seguono la crescita delle verdure. Facciamo un po’ di educazione ambientale, educazione alimentare, dopo lavoriamo anche con i G.A.S., facciamo un po’ di produzione extra per i gruppi di acquisto solidali che sono della zona. Loro si mettono insieme per poter acquistare dei prodotti, normalmente sono biologici e critici, a chilometro zero, equosolidale etc.. Insieme a tre cascine del Parco Sud agricolo gli proporzioniamo una parte della verdura. Facciamo coltivazione biologica, cosa significa biologico? Significa rispetto della terra, del tempo e delle persone, facciamo coltivazioni senza pesticidi, senza niente chimico. Lavoriamo con la vita, per la vita e con la vita! Non credete quando vi dicono che c’è bisogno del chimico, non è vero, serve soltanto per l’industria agro-farmaceutica, a noi non serve, con il macerato di ortica, un buon compost di letame riuscite a andare avanti perfettamente nel vostro orto, non c’è bisogno del chimico, questa è una grande bugia! Come facciamo? Mettiamo insieme delle piante che si possono dare un mano, queste sono le consociazioni, mettere delle piante che si aiutano a crescere, che si proteggono dagli insetti, facciamo delle rotazioni del terreno per rispettare il suolo, per rispettare la vita micro-organica che c’è nel terreno. La serra la utilizziamo per fare produzione durante i mesi più freddi, per anticipare un po’ le culture durante l’estate, insalate e altre verdure alla foglia che resistono al freddo del piattume padano, c’è anche pacciamato, la paglia che serve per proteggere contro gli infestanti e per mantenere un po’ più l’umidità.
Nel caso che non avete la possibilità di avere l’orto, potete venire qua, venire a dare una mano alla coltivazione. Siete tutti benvenuti. Potete venire qua soltanto a passare la giornata e stare in contatto con l’intorno agricolo alle porte di Milano. Se comunque volete avere il vostro pezzettino di orto, va beh, vi lascio uno spazio, una zappa e una forca e ci mettiamo tutti insieme a piantumare e a lavorare!

La Grecia siamo noi.




La rabbia e l'amore

John Holloway, dal Manifesto
21.02.2012


Non mi piace la violenza. Non penso che ci sia molto da guadagnare bruciando le banche e rompendo le vetrine. E tuttavia mi sento bene quando vedo la reazione ad Atene ed in altre città della Grecia all'approvazione da parte del parlamento greco delle misure imposte dall'Unione Europea. Di più: se non ci fosse stata un'esplosione di rabbia, mi sarei sentito sprofondare in un mare di depressione. Questa gioia è quella che si prova a vedere il poveraccio sempre bistrattato, ribellarsi e ruggire.
La gioia di vedere quelli che hanno preso mille schiaffi, ridarli indietro. Come possiamo chiedere alla gente che accetti con calma i feroci tagli al tenore di vita che implicano queste misure di austerità? Possiamo immaginarci che siano d'accordo sul fatto che il massiccio pontenziale creativo di così tanti giovani venga semplicemente eliminato, i loro talenti intrappolati in una vita di disoccupazione di lunga durata? E tutto ciò solamente per ripagare le banche e far diventare più ricchi i ricchi?
Tutto ciò solamente per mantenere un sistema capitalista che ha oltrepassato da molto tempo la sua data di scadenza, e che adesso offre al mondo soltanto distruzione. Per i greci, accettare queste misure con moderazione significherebbe moltiplicare la depressione con la depressione, depressione per un sistema fallito con l'aggiunta della depressione per la dignità perduta. La violenza della reazione in Grecia è un grido che si rivolge al mondo. Per quanto ancora staremo seduti a guardare mentre il mondo viene fatto a pezzi dai barbari cioè dai ricchi e dalle banche? Per quanto ancora staremo a guardare le ingiustizie che aumentano, il sistema sanitario smantellato, l'educazione ridotta ad un non-senso acritico, le risorse di acqua del mondo privatizzate, le comunità spazzate via e la terra devastata per i profitti delle compagnie minerarie?

L'attacco che si mostra così acuto in Grecia sta avvenendo ovunque nel mondo. Da tutte le parti il denaro sta assoggettando l'umano e la vita non umana alla sua logica, la logica del profitto. Ciò non è qualcosa di nuovo, ma l'intensità e l'ampiezza dell'attacco sono nuove, ed è nuova anche la generale consapevolezza che la dinamica attuale sia una dinamica di morte, che è verosimile che tutti ci stiamo dirigendo verso la scomparsa della vita umana sulla terra. Quando i commentatori esperti spiegano i dettagli delle ultime negoziazioni tra i governi sul futuro dell'eurozona, si dimenticano di menzionare che ciò che viene negoziato così biecamente è il futuro dell'umanità.

Siamo tutti Greci. Siamo tutti dei soggetti la cui soggettività è stata schiacciata dal rullo compressore di una storia determinata dal movimento dei mercati finanziari. O così sembra e così avrebbero voluto. Milioni di italiani hanno protestato a più riprese contro Silvio Berlusconi ma sono stati i mercati a farlo cadere. Lo stesso in Grecia: manifestazioni una dopo l'altra contro George Papandreou ma alla fine sono stati i mercati che l'hanno allontanato. In entrambi i casi, sono stati nominati dei servitori leali e fedeli per prendere il posto dei politici caduti, senza neanche uno straccio di consultazione popolare. Questa non è nemmeno la storia condotta dai ricchi e dai potenti, sebbene alcuni ne traggano vantaggi: è una storia fatta da una dinamica che nessuno controlla, una dinamica che sta distruggendo il mondo se la lasciamo fare.

Le fiamme di Atene sono fiamme di rabbia, e ci fanno gioire. E tuttavia la rabbia è pericolosa. Se viene personalizzata o si rivolge contro un gruppo di persone specifico (i tedeschi in questo caso) può facilmente diventare puramente distruttiva. Non è una coincidenza il fatto che il primo ministro a dare le dimissioni in segno di protesta contro l'ultima serie di misure di austerità in Grecia sia stato un leader del partito di estrema destra Laos. La rabbia può diventare facilmente una rabbia nazionalista, addirittura fascista; una rabbia che non fa niente per rendere il mondo migliore.
È importante dunque essere chiari sul fatto che la nostra rabbia non è contro i tedeschi, nemmeno contro Angela Merkel o David Cameron o Nicolas Sarkozy. Questi politici sono soltanto dei penosi ed arroganti simboli del vero oggetto della nostra rabbia - il potere del denaro, l'assoggettamento della vita intera alla logica del profitto.

Amore e rabbia, rabbia e amore. L'amore è stato un argomento importante nelle lotte che hanno ridefinito il significato della politica durante l'ultimo anno, un tema costante durante i movimenti Occupy, un sentimento profondo persino nel cuore dei violenti scontri avvenuti in molte parti del mondo. Dunque l'amore cammina mano nella mano con la rabbia, la rabbia del «come osano portarci via le nostre vite, come osano trattarci come oggetti». La rabbia di un mondo diverso che si sta facendo faticosamente strada attraverso l'oscenità del mondo che ci circonda. Forse.

Il farsi strada di un mondo diverso non è soltanto una questione di rabbia, anche se la rabbia ne fa parte. Riguarda necessariamente la costruzione paziente di un modo diverso di fare le cose, la creazione di forme diverse di coesione sociale e di mutuo soccorso. Dietro lo spettacolo delle banche che bruciano in Grecia c'è un processo più profondo, un movimento più calmo di persone che rifiutano di pagare i biglietti degli autobus, le bollette dell'elettricità, i pedaggi autostradali, i debiti con le banche; un movimento, nato dalla necessità e dalla convinzione, di persone che organizzano le proprie vite in un modo diverso, che creano comunità di mutuo soccorso e reti per l'alimentazione, che occupano edifici e terreni abbandonati, che creano orti comunitari, che ritornano nelle campagne, che girano le spalle ai politici (che adesso hanno paura farsi vedere per strada) e che creano direttamente forme democratiche di decisione sociale. Forse è ancora qualcosa di insufficiente e sperimentale ma di cruciale importanza. Dietro le fiamme spettacolari, è questa ricerca per la creazione di un modo diverso di vivere che determinerà il futuro della Grecia, e del mondo.

(traduzione di Vittorio Sergi)