sabato 30 aprile 2011

Senza giovani ossia senza futuro

SBEATIFICHIAMOLO

Buon primo maggio compagni!

Il punto di Gino Strada




Gino Strada su Obama e il No-bel della Vergogna

Mentre la sinistra nostrana....
balbetta, stretta tra l’impossibilità di difendere l’indifendibile e
l’incapacità di qualsiasi autocritica, il fondatore di Emergency ha parlato
chiaro «L'ho detto stamani al telegiornale di Rai Tre, e lo ribadisco: dare il
Nobel per la Pace al presidente degli Stati Uniti è come dare il Nobel per la
castità a Cicciolina o magari per i meno giovani come il Nobel per la castità a
Patrizia D'Addario, viste le prime tre decisioni del Nobel Obama: quella di
mandare in Afghanistan altri trentamila uomini, di non ratificare il trattato
contro le mine anti-uomo e di non fare un accordo per la riduzione delle
emissioni di gas nocivi. Non credo che esista altro commento. La maggioranza
degli americani è contraria al Nobel a Obama, e l'opposizione norvegese ha
chiesto le dimissioni del presidente del comitato.»«Un Nobel
vergognoso», così commentammo a caldo, il 10 ottobre scorso, l’assegnazione del
premio per la pace al presidente americano con più soldati in guerra dai tempi
del Vietnam.Nei due mesi che sono seguiti i fatti hanno mostrato ancor di
più l’indecenza della decisione della Commissione di Oslo. Le truppe in
Afghanistan sono state incrementate di altre 30mila unità, le minacce all’Iran
continuano, in Colombia si aprono nuove basi a stelle strisce.Tra gli
obamiani regna l’imbarazzo, ma di autocritica ovviamente non si parla.Ma
l’imbarazzo sembra generalizzato, al punto che lo stesso Obama non ha potuto
fingere di non cogliere l’assurdità della situazione nel suo discorso di Oslo.
«Non ho dubbi sull’esistenza di altri candidati che avrebbero potuto essere più
meritevoli», con questa ipocrita ammissione Obama vorrebbe mostrarsi modesto e
sportivo, come se il Nobel gli fosse arrivato per caso da una commissione
indipendente e politicamente neutra. Ma per favore…Non potendosi
nascondere dietro un dito, nella capitale norvegese Obama ha rivendicato
apertamente le guerre americane in corso, definendo quella afghana come – udite,
udite – «Un conflitto che l’America non ha cercato». Peccato che non ci sia
ancora un Nobel per la spudoratezza.D’altronde, la motivazione è quella di
sempre, e la ritroviamo in un altro passaggio del discorso di Oslo: «Il male
esiste, la promozione dei diritti umani non può essere solo un'esortazione. La
dura verità è che non sradicheremo i conflitti violenti nel corso della nostra
vita. Ci saranno momenti in cui le nazioni, da sole o di concerto, troveranno
l'uso della forza non solo necessario ma moralmente giustificato.»

martedì 19 aprile 2011

Kainano e referendum



Berlusconi ha paura della democrazia
di Nichi Vendola


Siamo alle comiche finali. La paura del quorum, la paura dunque della democrazia, spinge il governo Berlusconi a cancellare le norme della sua “rivoluzione nuclearista” nella speranza di preservare la sua porcata del legittimo impedimento e il suo affare della privatizzazione dell’acqua.
Ancora una volta gli affari privati di una cricca occupano per intero la cosa pubblica. Che tristezza!
Comunque possono stare certi che sull’appuntamento di giugno, per il successo dei referendum su legittimo impedimento e l’acqua, non verrà meno il nostro impegno per far pesare l’orientamento dei cittadini italiani a favore del bene pubblico.

sabato 16 aprile 2011

Europa, fai schifo

Questa Europa fa schifo

di Giorgio Cremaschi, da Liberazione, 13 aprile 2011

Il ministro Maroni dice la verità quando afferma che questa Europa è capace di salvare le banche e di fare la guerra, ma non di fare solidarietà. Ha ragione, ma questa è la sua Europa, quella delle Leghe, della xenofobia diventata mezzo per vincere le elezioni, dei governi di destra che la cavalcano e di quelli, pochi, di sinistra che si adattano e accettano. Gli abitanti dell’Unione Europea sono oltre 300milioni, 30mila migranti che giungono all’improvviso dall’Africa costituiscono lo 0,01 percento della popolazione europea. Che i principali governi europei e la Commissione dicano all’Italia ributtateli a mare perché non c’è posto è qualcosa di più di una vergogna sociale e morale, è la dimostrazione che l’Europa ha finito di esistere. Non serviranno allora le battute di sapore razzista con cui il segretario del Partito democratico accusa il governo di voler uscire dall’Unione europea per entrare nell’Unione africana. Questo modo di parlare è un altro segno della crisi culturale e politica del Pd.

Il 9 aprile scorso una grandissima manifestazione di lavoratori convocata dalla tentennante confederazione europea dei sindacati, si è svolta a Budapest. In quella grande manifestazione rappresentanti del mondo del lavoro di tutto il continente hanno messo sotto accusa tutta la politica dell’Unione europea. Quella politica che ha portato al massacro sociale della Grecia nel nome della stabilità dei conti delle banche tedesche, e che preannuncia analoga cura per l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e, domani, per l’Italia. Il nuovo patto di stabilità sottoscritto recentemente nel silenzio della politica italiana, ha stabilito una cura da strozzini per la rduzione del debito pubblico. L’Italia, se dovesse adottare davvero, a partire dal 2012, quelle misure di rientro dal debito, si troverebbe costretta a tagli sociali e civili di una dimensione mai vista e protratti nel tempo. Il che, con la follia in arrivo del federalismo, porterebbe alla frantumazione sociale, civile e forse anche politica del Paese.

Questa Europa pretende che tutti lavorino fino a 67 anni, ma non ha preso nessuna misura per tutelare l’occupazione e anzi ha sposato totalmente le più bieche ricette liberiste. Questa Europa auspica la distruzione dei contratti nazionali e il legame d’acciaio del salario con la produttività. Questa Europa ha salvato le banche, ma vuole la concorrenza selvaggia fra i lavoratori per il posto di lavoro ed esige la privatizzazione di ciò che resta dei sistemi sociali. Questa Europa non è stata in grado di affrontare, come invece era stato fatto nel passato, con un disegno comune crisi industriali come quella dell’auto. Si è così dato il via libera alla concorrenza selvaggia tra le multinazionali, alle delocalizzazioni, alle politiche di potenza degli Stati più forti, prima di tutto la Germania. Questa Europa non esiste più da tempo con un disegno civile e sociale unitario: è diventata solo un’area di esercizio delle più stupide ricette del libero mercato. Con la crisi economica mondiale tutto questo si è accentuato e si è rafforzato il disegno dei poteri economici di far pagare tutta la crisi ai lavoratori e ai cittadini europei.

Così, mentre alimenta burocrazia e retorica, l’Europa si piega agli aspetti più brutali della globalizzazione e mette in discussione proprio i suoi beni e le sue conquiste più importanti, lo stato sociale, il diritto del lavoro e i contratti nazionali, i diritti civili e l’accoglienza. Questa Europa ha paura di 30mila migranti che vengono da quell’Africa che ha colonizzato e depredato per secoli perché ha paura di sé stessa, della propria democrazia, dei propri diritti. Per questo non serve a niente contrapporre al leghismo la vuota retorica europeista, così come a nulla serve l’improvviso riutilizzo della retorica risorgimentale. Non si afferma la solidarietà con l’ipocrisia. Bisogna invece riconoscere la crisi sociale politica e morale di questa Europa che ci chiede di buttare a mare i tunisini. Questa Europa fa schifo. Noi dobbiamo solo pensare a come metterla in discussione dal lato della democrazia e dei diritti sociali e civili. Altrimenti l’edificio europeo crollerà dal lato dell’egoismo e della barbarie per colpa della meschinità e delle politiche antisociali dei governi e delle classi dirigenti.

(13 aprile 2011)

Un solo leader a sinistra



PANE E LIBERTA'

Oggi ho partecipato alla manifestazione per la pace, a Manduria, nella mia Puglia.
Dopo le vergognose sequenze di tanta povera gente ammassata in condizioni disumane nell’isola di Lampedusa, oggi è il turno di Manduria dove il modello tendopoli cade letteralmente a pezzi sotto le scosse di mille contraddizioni.
Quella tendopoli che ancora oggi appare priva di una chiara configurazione giuridica, è il contrario di un modello di accoglienza ed è soltanto il simbolo di un’arroganza ideologica, priva di razionalità, che mette a rischio la tutela di diritti umani fondamentali.
Torno a chiedere, alla luce delle inquietanti cronache di queste ore un gesto di resipiscenza. Il governo abbandoni la tentazione di una gestione tutta repressiva e militare di un’emergenza che in ogni suo aspetto ha un carattere sociale e umanitario e affidi alla protezione civile e, per questa via, alle istituzioni locali a al mondo dell’associazionismo e del volontariato la sfida della solidarietà e dell’accoglienza. Il governo usi l’articolo 20 del testo unico sull’immigrazione per consentire ai migranti quella protezione temporanea che è l’unico strumento in grado di incoraggiare i ricongiungimenti familiari e di evitare il concentramento in luoghi chiusi di tanti uomini e di tante donne che scappano dalla povertà e dalla paura e chiedono pane e libertà.
La tendopoli non è la riposta al problema, è la risposta che vuole la Lega. La tendopoli è al Sud e vuole dimostrare all’elettorato del Nord che terroni e africani sono rimasti amalgamati nello stesso terreno. Stanno costruendo una risposta elettoralistica con un retrogusto un po’ xenofobo, noi davanti a questa fabbrica dell’emergenza continueremo a fare della solidarietà la nostra bandiera e la nostra battaglia.

In memoria di Vittorio Arrigoni, combattente per la pace

A Vittorio...
www.nichivendola.it
Ci sono parole sufficienti per esprimere il dolore, lo sdegno, l’orrore di fronte ad un delitto e ad una violenza così orribile? Esprimo a nome di tutti i compagni e le compagne di Sinistra Ecologia Libertà la nostra commozione e il nostro omaggio per la vita e per il sacrificio di Vittorio Arrigoni











Prendi dei gattini, dei teneri micetti e mettili dentro una scatola” mi dice Jamal, chirurgo dell’ospedale Al Shifa, il principale di Gaza, mentre un infermiere pone per terra dinnanzi a noi proprio un paio di scatoloni di cartone, coperti di chiazze di sangue. “Sigilla la scatola, quindi con tutto il tuo peso e la tua forza saltaci sopra sino a quando senti scricchiolare gli ossicini, e l’ultimo miagolio soffocato.” Fisso gli scatoloni attonito, il dottore continua “Cerca ora di immaginare cosa accadrebbe subito dopo la diffusione di una scena del genere, la reazione giustamente sdegnata dell’opinione pubblica mondiale, le denunce delle organizzazioni animaliste…” il dottore continua il suo racconto e io non riesco a spostare un attimo gli occhi da quelle scatole poggiate dinnanzi ai miei piedi. “Israele ha rinchiuso centinaia di civili in una scuola come in una scatola, decine di bambini, e poi l'ha schiacciata con tutto il peso delle sue bombe. E quale sono state le reazioni nel mondo? Quasi nulla. Tanto valeva nascere animali, piuttosto che palestinesi, saremmo stati più tutelati.”
A questo punto il dottore si china verso una scatola, e me la scoperchia dinnanzi. Dentro ci sono contenuti gli arti mutilati, braccia e gambe, dal ginocchio in giù o interi femori, amputati ai feriti provenienti dalla scuola delle Nazioni Unite Al Fakhura di Jabalia, più di cinquanta finora le vittime. Fingo una telefonata urgente, mi congedo da Jamal, in realtà mi dirigo verso i servizi igienici, mi piego in due e vomito.

Vittorio Arrigoni, Gaza, 8 gennaio 2009
(Grazie ad Alina F. per la segnalazione)

martedì 12 aprile 2011

Contro le guerre senza se e senza ma

dal blog di Beppe Grillo


Russell Harding, vice comandante dell'operazione Unified Protector condotta dalla Nato in Libia, ha dichiarato che non chiederà scusa per i libici uccisi dal "fuoco amico". Chiamare un assassinio "fuoco amico" è come definire seduttore uno stupratore. "Vedendoli dall'alto non possiamo identificare di che natura siano i mezzi" ha aggiunto Harding. Quindi sono cazzi di chi sta di sotto quando arrivano i liberatori. Se muoiono sarà per una giusta causa, quella degli Stati Uniti, e alleati, di non voler rischiare i loro uomini sul campo di battaglia.
I bombardamenti sono nel DNA degli americani, è un modo per massimizzare i risultati riducendo le perdite. Muoiono i civili e salvi i tuoi soldati. Una tattica vincente, dall'Italia del 1943/45 in cui le persone uccise dalle bombe degli alleati furono decine di migliaia, da Dresda trasformata in un rogo dove bruciarono vivi 25.000 tedeschi, in massima parte donne e bambini. Fino al trionfo di Hiroshima e Nagasaki, dove le atomiche furono lanciate a scopo dimostrativo nell'agosto del 1945, a guerra praticamente finita con Hitler e Mussolini già defunti da mesi. Le bombe continuarono in Vietnam e Laos fino all'Iraq di Bush padre, all'Iraq e all'Afghanistan di Bush figlio e alla Libia di Obama, Nobel della Pace forse inconsapevole.
La Nato sta facendo pressioni sull'Italia perché partecipi ai bombardamenti. Ho una risposta per i vertici della Nato: "Bombardatevi i coglioni!". La Nato è diventata uno strumento di aggressione, ma in origine la sua missione, mai smentita, era difensiva. E' sufficiente una delibera dell'ONU per bombardare in 24 ore Libia e Costa D'Avorio.
E' cosa nota che nelle guerre il numero di vittime civili aumenta sempre di più e sopravanza ormai di molto quelle militari. Le città sono diventate il fronte. Le contraeree sono costruite vicino agli ospedali, come deterrente, ma è un esercizio inutile. I bombardamenti andrebbero proibiti. Ci vorrebbe una moratoria internazionale. Lanci una bomba dalla carlinga o un missile Tomahawk da una nave e quello che succede succede. Va messa la parola fine ai bombardamenti, ogni bombardamento è un assassinio potenziale di innocenti. Chi vuole fare la guerra, come Russel Harding, scenda sul terreno di combattimento e rischi la sua pelle. Fuori l'Italia da qualunque guerra, a iniziare dall'Afghanistan, e quando si scrive di bombardamenti si usi il termine esatto: "Assassinio!".

domenica 10 aprile 2011

Il tramonto di Geronzi



Si dilegua uno dei peggiori esemplari della finanza banditesca italiana, implicato anche nei crack Parmalat e Cirio...Non pagherà mai per i suoi reati


Geronzi sperava, Tremonti sapeva

di EUGENIO SCALFARI


LO CHIAMANO il banchiere di Marino ma è uno sberleffo che Cesare Geronzi non merita: è stato molto peggio che un semplice provincialotto, ma anche molto di più. Ha avuto in mano per lungo tempo le leve che governavano un sistema di potere ed ha ambito che quel sistema prevalesse su tutti gli altri. Non ce l'ha fatta ed è caduto. Gli era già capitato altre volte ma era sempre riuscito a rialzarsi; questa volta è difficile che accada.

Il suo sistema di potere nacque dalla fusione del Banco di Roma con il Banco di Santo Spirito, di proprietà d'una Fondazione di origine vaticana. Il Banco di Roma era una delle tre banche d'interesse nazionale, le altre due erano possedute dall'Iri: la Banca Commerciale Italiana e il Credito Italiano. Le tre Bin avevano il controllo di Mediobanca, guidata da Enrico Cuccia.
Il sistema era questo: l'Iri, le tre Bin, Mediobanca. Cuccia diceva che il corpo di Mediobanca era pubblico ma la testa era privata. La testa privata era la sua, il corpo pubblico era l'Iri, ma il sangue che circolava nel sistema e lo teneva in vita era frutto delle tre Bin perché erano loro a collocare tra i risparmiatori le obbligazioni emesse da Mediobanca per raccogliere i capitali necessari a farla funzionare come banca d'affari. Queste erano le entità societarie, alla testa delle quali c'erano uomini in carne ed ossa con le loro storie e i loro caratteri.

Cuccia era uno di quegli uomini, ma insieme a lui e prima di lui ce n'erano altri, tutti molto speciali: Raffaele Mattioli, Adolfo Tino, Ezio Vanoni, Bruno Visentini, Ugo La Malfa, Pasquale Saraceno. E la Banca d'Italia di Donato Menichella e poi, dal 1960, di Guido Carli.
Questa era la struttura di quel sistema e di quell'intreccio tra finanza e politica: la rete di sostegno che proteggeva l'economia reale, la finanziava e la regolava. I pilastri dell'economia reale erano: la Fiat di Valletta e poi, dal 1968, di Gianni Agnelli; l'Eni di Enrico Mattei, la Edison di Giorgio Valerio, la Montecatini di Carlo Faina, la siderurgia a ciclo integrale, le autostrade, i telefoni e le telecomunicazioni, la Rai, l'Alitalia, la Finmeccanica, tutte dell'Iri insieme alle tre Bin. Ma delle banche l'Iri si limitava a custodire le azioni; la politica bancaria la guidava la Banca d'Italia e nessuno si sognava di metterne il ruolo in discussione.

Così andarono le cose dal 1947 fino agli anni Settanta. Adesso sembra preistoria, sono cambiate le strutture, sono cambiati gli uomini. La spinta in avanti dell'economia italiana cominciò a rallentare fino a quando si fermò del tutto. Il debito pubblico prese a crescere fino a diventare, dagli anni Ottanta ad oggi, una mostruosa montagna. La disoccupazione, dopo esser stata riassorbita per tutto il decennio 1955-65, ricomparve fino a diventare strutturale. La competitività e la produttività scesero a livelli infimi. Ma soprattutto il rapporto tra gli affari e la politica diventò perverso e la sua perversità andò sottobraccio con la corruzione. Fino a quando la Prima Repubblica cadde e la Seconda che la sostituì si rivelò peggiore al punto da far rimpiangere quella che l'aveva preceduta.

* * *

Geronzi diventò un elemento del sistema quando già il rapporto tra affari e politica era imputridito, la rete di protezione e di regolazione era stata strappata in più punti, gran parte delle grandi imprese erano scomparse o avevano cambiato padrone. Per di più era ancora un elemento marginale perché il Banco di Roma che aveva cambiato il nome in Capitalia era molto più debole di Unicredit mentre la Commerciale era addirittura scomparsa nelle ampie braccia di Intesa-Sanpaolo. Tanto debole da mettersi in vendita poiché nella nuova era della globalizzazione le banche italiane non reggevano il confronto; per sopravvivere dovevano assumere ben più ampie dimensioni. La scorciatoia obbligata per Geronzi che guidava Capitalia fu la fusione con l'Unicredit di Profumo.

Nella spartizione dei ruoli a lui toccò la presidenza di Mediobanca, da tempo orfana di Cuccia e poi del suo successore Maranghi.
Non ebbe deleghe, gli amministratori Nagel e Pagliaro se le tennero ben strette salvo il comitato "nomine" che era ed è la cabina di regia delle società partecipate. Ma Geronzi era un bravissimo navigatore ed aveva un suo speciale talento: utilizzava le aziende per accrescere il suo potere. Talvolta le sue iniziative andavano anche a vantaggio dell'azienda, ma più spesso il vantaggio era suo soltanto. Così fece anche con Mediobanca. C'era entrato quasi di soppiatto, per "generosità" di Profumo; ma ne prese sempre più saldamente le redini lasciando le operazioni bancarie alle mani dei manager. Lui si occupò del suo potere. Diventò il referente di Gianni Letta e di Berlusconi; in quella veste si attribuì il ruolo di supervisore di una delle società partecipate, la Rcs-Mediagroup, cioè il Corriere della Sera la Gazzetta dello sport e i tanti settimanali del gruppo.

Strinse un sodalizio con i francesi di Bolloré e di Tarak Ben Ammar, che avevano un piede in Mediobanca e un altro nelle Generali. Vagheggiò una fusione tra Generali e Mediobanca; tenne l'occhio su Bernabè e su Telecom, con la sua importante rete di comunicazioni e la sua televisione La7, la sola esistente fuori dal duopolio Rai-Mediaset. E forse non fu estraneo alla caduta in disgrazia di Profumo e alla sua defenestrazione da Unicredit. A quel punto pose la sua candidatura alla presidenza di Generali. Si era convinto che fosse più agevole guidare Mediobanca dall'alto di Generali anziché guidare Generali da Mediobanca. Forse pensava che il management del Leone (Perissinotto e Balbinot) fosse più malleabile di Pagliaro e di Nagel. Ma su quel punto sbagliò. Non aveva previsto che quei quattro si sarebbero messi d'accordo per farlo fuori. Ci hanno impiegato un anno. Più veloci di così...!

* * *

Chi volesse definire con una sola parola Cesare Geronzi, potrebbe chiamarlo l'Uccellatore, colui che per professione ha quella di catturare uccelli vivi. Non è poi tanto male acchiappare uccelli vivi e metterli in gabbie dorate e provviste di buon mangime. Certo, con poca o pochissima libertà. Ma c'è un altro personaggio di questa storia ed ha anche lui il suo soprannome: chiamiamolo Convitato di pietra o Gran Commendatore, secondo il testo di Da Ponte. Parliamo naturalmente di Giulio Tremonti, ministro dell'Economia. Tremonti non ha armato la mano dei manager di Mediobanca e di Generali, tanto meno li ha ispirati e guidati. Però sapeva. Aveva anche avvertito, ma molto alla lontana, Berlusconi, come se parlasse di un'ipotesi remota e abbastanza facile da bloccare. Invece era questione di ore. Non sapeva nulla Geronzi, non sapevano nulla Bolloré e Tarak Ben Ammar, non sapevano nulla Marina figlia e Silvio padre; ma il Convitato di pietra sì, lui sapeva.

Palenzona sostiene che il nuovo sistema, la nuova astronave, è composta di tre moduli: a valle ci sono le Generali, il comando di Generali è in mano a Mediobanca, il comando di Mediobanca è in mano a Unicredit. Cioè a Palenzona che ne è vicepresidente. Il presidente è il tedesco Dieter Rampl, che sta dietro Palenzona e forse è lui il vero perno alla faccia dell'italianità. Ma probabilmente alle spalle corporalmente possenti di Palenzona c'è il Gran Commendatore, Giulio Tremonti, protettore della Lega e fautore delle banche territoriali. Negli anni Ottanta un'architettura di questo genere avrebbe potuto essere immaginata e costruita, ma oggi non direi. L'economia globale, la finanza globale, la libera circolazione dei capitali non vanno in questa direzione. Le economie nazionali non reggono se non hanno dimensioni continentali. Usa, Cina, India, Russia, Brasile, queste sono le dimensioni. L'Europa le avrebbe ma per ora l'Europa non c'è. I finanzieri, i banchieri, gli industriali debbono immaginare e operare come se l'Europa ci fosse. Le architetture pensate sulla dimensione del cortile di casa non reggono all'urto della realtà, sono attendamenti fabbricati con le carte da gioco dei bambini. L'Uccellatore così come il Convitato di pietra sono anomalie nel paese delle anomalie.

Perciò è più corretto prevedere che i manager di Mediobanca, di Generali, di Unicredit, di Intesa, di Telecom, di Fiat-Chrysler, punteranno sul valore delle aziende e saranno giudicati su quella base. Valori non effimeri, non ottenuti con accorgimenti speculativi, ma di media-lunga durata, aggiornati ogni anno ma proiettati almeno verso il quinquennio o meglio ancora il decennio. Incrementi di valore, ampliamento delle basi produttive, regole di concorrenza, titoli giudicati dal mercato, competitività, creazione di nuovi prodotti, conquista di nuovi mercati. Le "matrioske" immaginate da Palenzona non servono più. Dietro Generali c'è il mercato internazionale delle assicurazioni; dietro Mediobanca c'è il mercato degli affari da intermediare e da finanziare; dietro Intesa e Unicredit c'è la banca generale, il credito da offrire sul territorio e in Europa. Lo Stato ha un solo e vero modo di stare sul mercato: produrre servizi pubblici e infrastrutture efficienti e far rispettare le regole di concorrenza che impediscano monopoli, conflitti d'interesse e rendite non tassate.
Buona giornata e buona fortuna.

Vite precarie



PRECARIO MONDO

di Ascanio Celestini

Un operatore di call center mi dice che qualche anno fa viveva al centro di Roma, divideva l'affitto con un amico e aveva tempo per suonare e andare in tournée. Si considerava un musicista e utilizzava il call center come sponda. Adesso sta in periferia con tre studenti, lavora full time per sopravvivere, non ha più tempo per suonare e comunque anche la richiesta di concerti è diventata così striminzita che non ci camperebbe. Mi dice “ho quasi cinquant'anni, non ho una famiglia e va a finire che torno a vivere con mia madre”. Allora dov'è la precarietà? Non è solo un problema di stage non pagati, di assunzioni a tempo determinato, di lavoro nero e licenziamenti facili. Mille e cinquecento euro al mese basterebbero se una famiglia ne pagasse duecento d'affitto. Basterebbero se una donna e un uomo avessero la certezza di lavorare fino al giorno della pensione. Basterebbero se il figlio di un operaio studiasse in una classe con meno di venti bambini, ricevesse una vera formazione che comprendesse le lingue straniere e la musica, la storia contemporanea e il teatro... Basterebbero se quella famiglia avesse attorno una comunità che la sostiene, un servizio sanitario che la cura quando sta male.



E invece l'operaio che pensava di essere assunto a tempo indeterminato vede in televisione un padrone col maglioncino che gli sfila i diritti da sotto i piedi, il sindaco (sedicente di sinistra) che va a giocarci a scopetta e prega il proprio partito di affiancarsi alla battaglia padronale. Porta il figlio in una scuola dove i suoi compagni sono così tanti che la maestra ci mette un mese per imparare i nomi, una scuola che funziona solo per l'impegno degli insegnanti che non hanno ancora mollato, che non sono ancora scoppiati per l'umiliazione continua alla quale sono esposti.



Un lavoratore è precario non solo per la precarietà del suo lavoro, ma soprattutto perché sono precari la scuola, la casa, l'assistenza sanitaria, i trasporti, l'informazione, la cultura, il cibo che mangia e l'acqua che beve, l'energia che consuma e i vestiti che indossa.



Invece io dico che la scuola è solo pubblica. Dico che la scuola privata è una questione privata, un'azienda che deve prendere due lire solo in quel paesino di montagna dove non è ancora stata costruita quella statale. Dico che accettare oggi una riduzione dei diritti in fabbrica significa che domani quei diritti si ridurranno ancora di più. Dico che se un lavoratore accetta di lavorare per uno stipendio ridicolo non fa solo una scelta personale, ma sta costringendo tutti gli altri ad essere sottopagati, così come un lavoratore che sciopera e ottiene il riconoscimento di un diritto, lo fa anche per quello che entra. Dico che seicento euro d'affitto per un monolocale seminterrato in periferia (c'era il cartello nella piazza della mia borgata fino a poche settimane fa) è un furto e quando la casa non si trova: la si occupa.

Dico che se acquisto un paio di scarpe sottoprezzo sto sfruttando un operaio e se compro a mio figlio un pallone cucito da un bambino della sua età dall'altra parte del mondo sono peggio di un pedofilo. Dico che se prendo l'acqua da bere al supermercato e uso quella potabile che esce dal mio rubinetto per lo sciacquone del cesso sono un pazzo pericoloso. Dico che non sono un uomo moderno se accetto la devastazione di una valle per farci passare un treno veloce che impiega un'ora di meno per portarmi in Francia: sono un criminale.

Penso a una donna del trentino che va al supermercato a comprare un chilo di mele cilene. Se quelle mele costano meno di quelle coltivate sotto casa sua è evidente che in Cile c'è un contadino sfruttato e uno del trentino che resta disoccupato, un aereo che inquina inutilmente l'oceano e una piccola frutteria che chiude.



Il lavoro era precario vent'anni fa. Oggi è la nostra visione del mondo ad essere precaria.



Io non cerco voti per le prossime elezioni, né tessere per la prossima campagna di tesseramento. Non ho bisogno di carne da macello per la prossima guerra umanitaria o vittime del destino per il prossimo terremoto. Non scendo in piazza per un lavoro a tempo indeterminato o per qualche centesimo che il ministero della cultura succhia dai serbatoi della benzina. Non voglio mettere all'ordine del giorno del prossimo consiglio dei ministri o del prossimo talk show, del prossimo monologo teatrale o della prossima canzonetta il solito discorso del giovane sottopagato o disoccupato.



Io dico che questo sistema violento mi fa paura e so che per liberarcene dobbiamo pacificamente far paura al sistema.





Ascanio Celestini, il manifesto, sabato 9 aprile 2011



http://www.ascaniocelestini.it/precario-mondo/

giovedì 7 aprile 2011

NO NUKES!