lunedì 21 febbraio 2011

mercoledì 16 febbraio 2011

Il capitalismo è incompatibile con la vita sulla terra




Chevron pagherà 8.6 miliardi per danni ambientali in Amazzonia

Il colosso petrolifero è stato condannato da un tribunale ecuadoregno. È uno dei risarcimenti per danni all'ambiente più grandi della storia. "Un verdetto storico"

di JACOPO PASOTTI da Repubblica

ACCUSE pesantissime. Che un tribunale ecuadoregno ha ritenuto legittime: per i giudici tra 1964 e il 1990 la Texaco (oggi acquistata dalla Chevron) ha riversato nell'ambiente più di 68.000 milioni di litri (18.000 milioni di galloni) di rifiuti tossici nei fiumi amazzonici e ha abbandonato nella foresta almeno 900 pozze piene di residui delle estrazioni petrolifere. Inoltre la compagnia ha sversato accidentalmente 64 milioni di litri (17 milioni di galloni) di greggio a causa di rotture accidentali di oleodotti. A dirlo sono i 30.000 indigeni e coloni della provincia ecuadoriana di Sucumbios che hanno denunciato la compagnia.

"Sono passati quaranta anni da quando la Texaco iniziò le operazioni di estrazione in Ecuador, e con questo la paggior catastrofe naturale causata dalle attività petrolifere nella storia dell'umanità", dice Pablo Fajardo, l'avvocato delle vittime. "Ci sono voluti 17 anni di battaglie giuridiche, ma finalmente la Texaco paga per i suoi crimini ambientali". Secondo molti, il verdetto è un evento storico. Fajardo sottolinea che, a differenza di disastri come quello della Exxon Valdez (1989) o del Golfo del Messico (2010), il caso della Texaco è "un atto criminale sistematico che è durato per 4 decadi".

La sentenza è stata emessa dalla corte Provinciale di Giustizia di Sucumbios presso Lago Agrio, una cittadina sorta nel cuore della foresta negli anni '60 per lo sviluppo dell'industria petrolifera nella zona. L'inizio della disputa risale al 1993 quando gli abitanti di alcuni villaggi iniziarono una causa contro la Texaco. Nel 2001 Chevron acquistò la Texaco e ricevette il processo in eredità. Chevron è la seconda maggiore società petrolifera statunitense dopo ExxonMobil.

La decisione della Corte non soddisfa la compagnia. In un comunicato, la Chevron - che ha già annunciato di voler ricorrere in appello - definisce il verdetto "illecito ed inapplicabile" e fa sapere che non intende pagare il risarcimento. Il risultato non piace nemmeno gli avvocati delle vittime: il risarcimento richiesto inizialmente era di 113 miliardi (cinque volte superiore ai danni chiesti alla BP per l'incidente nel Golfo del Messico). Del risarcimento, 5.4 miliardi serviranno per risanare i terreni contaminati, 2.2 miliardi andranno invece per le cure mediche alle vittime dell'inquinamento, il resto servirà a ricreare l'originario ecosistema.

Basandosi sui dati ufficiali della mortalità in Ecuador, uno studio recente promosso dalla organizzazione Amazon Defense Coalition ha evidenziato come la catastrofe ambientale che affligge la foresta ecuadoriana possa provocare quasi 10.000 morti di cancro entro il 2080, questo anche se la Chevron attuasse un'immane opera di risanamento. "Stiamo pensando di ricorrere in appello, ma dobbiamo prima studiare le 187 pagine della sentenza", spiega Fajardo. "Ogni volta che versavano sostanze tossiche nei fiumi, queste inquinavano l'intero bacino a valle, il danno che hanno fatto colpisce tutta l'Amazzonia."

Ci fai schifo, Cainano


"Io e il Cavaliere: quella sera gli dissi che ero minorenne"

Ruby è stata ad Arcore quindici notti in settantasette giorni: la prima volta il 14 febbraio, l'ultima il 2 maggio 2010. Il presidente del consiglio le ha offerto un appartamento nella Dimora Olgettina. In quell'occasione ha rivelato la sua minore età. La preoccupazione del premier di cancellare ogni traccia del suo legame con la minorenne è stata la ragione dell'intervento in questura

di PIERO COLAPRICO E GIUSEPPE D'AVANZO

C'è un segreto in quest'indagine. È stato ben conservato per sette mesi, custodito come una pepita d'oro. Il segreto è in tre frasi del doppio verbale d'interrogatorio di Ruby, 3 agosto 2010. Sono poche parole, pochi ricordi e risolvono con una determinante testimonianza diretta le tre questioni decisive dell'affaire: Silvio Berlusconi ha mai chiesto a Ruby di fare sesso? Due. Berlusconi sapeva che la ragazza, nella primavera del 2010, non ha ancora compiuto diciotto anni? Tre. Come nasce - e da chi - la bubbola della "nipote di Mubarak".

Ascoltiamo Ruby. Si deve tornare alla sera del 14 febbraio, giusto un anno fa. È la prima volta, dice Ruby, che incontra il capo del governo. "... Berlusconi mi prese da parte e mi condusse in una stanza dove restammo soli. Mi disse che la mia vita sarebbe cambiata e, anche se non ha mai parlato esplicitamente di rapporti sessuali, non è stato difficile per me capire che mi proponeva di fare sesso con lui". L'uomo ha 74 anni. È solo nella stanza con la ragazza. Ruby non dice di essere stata toccata. Ruby ricorda soltanto le promesse di quell'uomo immensamente ricco: "La mia vita sarebbe cambiata...". Perché non avrebbe dovuto crederci? Finalmente, pensa la ragazza.

È scappata di casa per inseguire il sogno di un'altra vita e la pazza, disperata convinzione di sconfiggere il destino già scritto in Italia per una marocchina figlia di un venditore ambulante. È fuggita da una, due comunità. Ha ballato
la danza del ventre, qui e là. È diventata cubista in disco pub lungo i viali che portano in periferia. Si è prostituita. Ha rubato. Ha creduto nelle parole di Emilio Fede che l'ha ammirata in un concorso di bellezza e convinta al viaggio verso Milano. Non ha alcun dubbio che "Emilio" l'aiuterà. Non è stato già un aiuto averla indicata a Lele Mora che l'ha accettata nella sua squadra? Non gli deve un grazie ora che, nel giorno di San Valentino, l'ha condotta ad Arcore?

Quando, la notte del 14 febbraio, Ruby entra in quella stanza da sola con il presidente del Consiglio ("un ufficio", ricorda lei), il cielo è a portata di mano, ogni pena è finita, il passato sta per essere cancellato. L'uomo di 74 anni, quella notte, non promette soltanto. Dimostra di voler fare sul serio, davvero avrebbe fatto la fortuna di quella ragazza. Ascoltiamo Ruby: "Berlusconi mi consegnò una busta con 50mila euro..." e la ragazza non aveva mai visto tanti soldi e tutti insieme.

I ricordi di Ruby sono decisivi per il processo (e anche per un giudizio extraprocessuale, politico). Fin dalla prima volta che l'incontra dunque, Berlusconi chiede a Ruby sesso, parla di sesso e nient'altro che di sesso. Si dice disponibile a pagare. Molto, tantissimo.

Quante volte l'uomo di 74 anni e la minorenne s'incontrano? Il 3 agosto 2010, la ragazza racconta ai pubblici ministeri la sua versione dei fatti: in larga parte sincera, ma con qualche omissione, qualche fanfaronata, qualche parola di troppo o di troppo poco. I pubblici ministeri "tracciano" il suo telefono e scoprono che Ruby non è stata ad Arcore tre volte, come dice, "per una cena", o "per una notte". È stata a Villa San Martino ininterrottamente dal 24 al 26 aprile 2010, per dire. Silvio Berlusconi, quel giorno, è stato alla Scala con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e si è detto "radioso". Poi raggiunge Vladimir Putin e l'accompagna ad Arcore. Il giorno dopo, conferenza stampa a Villa Gernetto, ma ritorno a Villa San Martino. Ad Arcore chi c'era? Ancora la giovane ed entusiasta Ruby, la quale "notte e giorno era presente", come hanno stabilito i tecnici che analizzano il traffico telefonico per conto della Procura. C'era anche a Pasqua e Pasquetta, c'era il Primo Maggio, quattro settimane prima di quella notte in cui, accusata di furto da un'amica ballerina, finisce in questura, in via Fatebenefratelli: è la notte in cui Silvio Berlusconi telefona, spiegando che avevano a che fare non con una "scappata di casa", ma con la "nipote di Mubarak".

Tra il 14 febbraio e il due di maggio, Ruby è ad Arcore il 14 (domenica), il 20 (sabato), il 21 (domenica), il 27 (sabato), il 28 (domenica) febbraio 2010. E ancora, il 9 (martedì) marzo 2010 ; il 4 (domenica), il 5 (lunedì), il 24 (sabato), 25 (domenica - Festa della Liberazione), 26 (lunedì) aprile 2010. A maggio, il 1 maggio (sabato - Festa del lavoro) e il due (domenica). Quindici notti. In settantasette giorni, si contano sessantasette contatti telefonici. Quasi uno al giorno.

La costante frequentazione nella primavera non scioglie l'altro decisivo quesito processuale: Berlusconi sapeva degli anni di Ruby? Era consapevole della sua minore età?

Ancora una volta ascoltiamo la novità di Ruby: "Fino a quel momento, la sera del 14 febbraio, Berlusconi sa che ho 24 anni. La volta successiva, mi ricordo era in marzo, l'autista di Emilio Fede viene a prendermi in via Settala, dove abitavo allora. Torno ad Arcore e là, parlando con le altre ragazze invitate, vengo a sapere che chi stava con lui, con Silvio, poteva avere la casa gratis. Alcune ragazze mi dissero di avere avuto a Milano 2 un appartamento con cinque anni di affitto pagati". Parliamo della Dimora Olgettina, dove vivono Marysthell, Barbara, Iris, Imma e le altre. Ruby conosce quelle vite. Sa come possono essere comode e lussuose.

Fermiamoci un attimo: una casa, a Milano 2, gratis, per cinque anni. Per Ruby è più di un sogno, è una vittoria contro il destino di una "scappata da casa", da Letojanni provincia di Messina. La proposta non è il primo passo verso il successo. È il successo, il primo di un rosario di successi. Ruby pende dalle labbra di Berlusconi, che fa la sua mossa. Quella sera le parla della possibilità di una sistemazione. Di un appartamento lì all'Olgettina. Finalmente da sola, finalmente autonoma, in un appartamento tutto suo. Ruby è incredula davanti a tanta fortuna. Sa che la casa dimostra che è entrata nel "cerchio stretto" delle favorite del Sultano. C'è un solo pensiero che disturba quella felicità. Ora lo ricorda ai pubblici ministeri che la interrogano: "A Berlusconi avevo detto falsamente di avere ventiquattro anni e di essere egiziana. Quando mi propone di intestarmi quella casa, dovevo dirgli come stavano le cose. Non potevo più mentire. Gli dissi la verità: ero minorenne ed ero senza documenti". Berlusconi non fa una piega, a quanto pare. Non si stupisce. E lancia l'idea che ora lo danna come imputato di concussione. Le suggerisce: "Dirai a tutti che sei la nipote di Mubarak così potrai giustificare le risorse che ti metterò a disposizione". È allora il Cavaliere a inventarsi la fanfaluca che, con impudenza, evoca oggi in Parlamento per salvarsi dal processo milanese.

Siamo ad agosto e pubblici ministeri più avventurosi avrebbero cominciato ad indagare il presidente del Consiglio. Alla Procura di Milano, al contrario, appare urgente rintracciare conferme al racconto della minorenne prima di muovere verso Silvio Berlusconi. Ruby mente? E in che cosa mente?

Le indagini in via preliminare hanno da accertare se davvero Ruby conosce il Cavaliere; se davvero è stata ad Arcore con lui; se davvero le ragazze che dice di aver incontrato a Villa San Martino frequentano abitualmente le feste e le cene del premier; se davvero esiste un "qualcosa" chiamato bunga bunga, sino a quel momento, un assoluto inedito. Ognuno di questi passaggi trova più di un riscontro nei documenti acustici raccolti e anche in testimonianze dirette: tre ragazze - M. T., amica di Nicole Minetti, Maria Magdoum e la giovane Natascia, amica di Aris Espinoza, una delle più assidue frequentatrici a pagamento del premier - descrivono alla stessa maniera la cerimonia erotica, la sala sotterranea, le scene, i balletti, il premier che tocca, le ragazze che ballano sempre più scollacciate davanti a lui. È quello che Ruby chiama nell'interrogatorio "il rito dell'harem".

Il quadro indiziario s'è fatto a questo punto più preciso, addirittura nel dettaglio. Il 6 ottobre, i pubblici ministeri afferrano la prova evidente che li convincerà di essere sulla buona strada: Ruby viene interrogata da un emissario di Berlusconi, alla presenza di Lele Mora e di un avvocato, che le chiedono di ripetere quel che ha raccontato un paio di mesi prima in procura. Vogliono sapere tutto, anche quello che Ruby preferirebbe tacere. "Le scene hard con il pr...", come riferisce al telefono, Luca Risso, l'attuale fidanzato di Ruby. Si può qui lasciar perdere quel che appare chiaro ai pubblici ministeri. Berlusconi sa delle indagini, sta tentando di mettere riparo alla catastrofe che lo minaccia e i detective devono affrettarsi per evitare l'inquinamento di prove e testimonianze. Qui interessa dire altro. La preoccupazione del premier di cancellare ogni traccia del suo legame con la minorenne è stata anche la ragione del suo malaccorto intervento, la notte del 27 maggio, alle 23.45, sul capo di gabinetto della questura milanese. È l'episodio chiave della partita giuridica.

Lo affronta il giudice delle indagini preliminari Cristina Di Censo. Deve decidere se Milano è competente e se la procura ha raccolto prove così evidenti da rendere inutile l'udienza preliminare e legittimo un processo con rito immediato. La telefonata in questura risolve il caso. Berlusconi non chiama nelle sue funzioni di presidente del Consiglio, perché il capo del governo non è funzionalmente sovra-ordinato al capo di gabinetto di una questura, come lo sarebbe il ministro dell'Interno. Il Cavaliere mette sul tavolo, quella notte, la sua qualità di pubblico ufficiale; la sua influenza e non la sua funzione; il suo peso e la sua forza e non i suoi compiti istituzionali.

Questa differenza "radica", come si dice, la competenza nella procura territoriale e non presso il tribunale dei ministri, come sarebbe avvenuto se avesse speso la sua funzione. La "balla della nipote di Mubarak", come dice il questore dell'epoca, non cambia di una virgola la prospettiva. Come nulla cambia che gli atti sessuali con una prostituta minorenne siano stati compiuti ad Arcore, perché il reato più grave - la concussione - "attrae" come una calamita il reato minore, in questo caso la frequentazione con la diciassettenne Ruby in "un contesto" sessualmente molto equivoco, che però ha dei punti fermi. Il giudice li elenca in quindici pagine di "fatti storici" e accertati, o detto in altro modo, di prove evidenti. Da quei verbali di Ruby se n'è fatta di strada e solo a dicembre (21) Berlusconi è iscritto nel registro degli indagati. Quel che sa, quel che ha fatto, prima e dopo il 27 maggio è sufficientemente dimostrato. Intorno a lui Lele Mora, Emilio Fede e la consigliere regionale Minetti organizzano a Milano un vivamaria di ragazze, e per dirla con Nicole ci sono "zoccole" e "ragazze venute dalle favelas" e "zingare". Qui interessano le "zoccole" perché sono loro ad annunciare il reato. Per Lele, Emilio e Nicole, perché il capo del governo è soltanto l'"utilizzatore finale", e sin qui estraneo a ogni contestazione penale. È la "zoccola" minorenne che mette nei guai il presidente del Consiglio. O meglio, se ha ragione Ruby, il capo del governo si mette nei guai da solo. È vero, il 14 febbraio pensa che Ruby abbia 24 anni e le promette mari e monti.

Sconveniente forse per chi ha liberamente scelto di assumere responsabilità pubbliche e dovrebbe per precetto costituzionale svolgere i suoi doveri con dignità e onore, ma in ogni caso non un reato. Il pasticciaccio che rovina Berlusconi si consuma a marzo, quando vuole consegnare un appartamento alla ragazza. In quell'occasione, la ragazza gli racconta la verità e dunque Berlusconi conosce la realtà dell'anagrafe, ma non si arresta. Vuole Ruby accanto a sé e la consapevolezza della minore età della ragazza non ferma il suo desiderio. Ruby ne è così consapevole che si vanta del capriccio che sollecita in quell'uomo di 74 anni: "Quell'altra, Noemi, è la pupilla, io sono il ****". Il Cavaliere sembra trovare le ragioni della prudenza soltanto dopo l'agitata notte del 27 maggio.
Non vedrà mai più, per quel che se ne sa oggi, Ruby. Si sentiranno soltanto al telefono. E Ruby mette a verbale l'ultima frase di Silvio Berlusconi: "Ci potremo rivedere una volta che hai compiuto la maggiore età".
(16 febbraio 2011)

Geniale, dal corteo

La fattoria di Culo Flaccido




La fattoria degli italiani

di BARBARA SPINELLI da Repubblica

DICE il presidente del Consiglio che un golpe morale è in atto contro di lui, e che a cospirare sono le procure, i giornali, le donne che domenica hanno manifestato contro un premier giudicato indegno della carica che ricopre.

Dice ancora, anticipando quella che sarà la sua strategia difensiva: "Io sono un uomo separato e sono libero di fare quel che voglio a casa mia. Vogliono farmi dimettere e basta". Sventola la bandiera della libertà, grida al lupo indicando il Tribunale di Milano che ieri l'ha rinviato a giudizio con rito immediato per concussione e prostituzione minorile, ma in questo suo sventolare c'è qualcosa che non va. Pur occupando il potere, non cessa di presentarsi come uomo privato, nella cui vita nessuno può interferire. S'identifica addirittura col piccolo mugnaio di Federico II, che ai soprusi del despota replicò: "C'è pur sempre un giudice a Berlino". Al tempo stesso, nella qualità di uomo pubblico, accampa diritti a un'impunità che nessun cittadino o mugnaio possiede.

Difficile sottrarsi al dubbio che si mimetizzi nella folla, diventandone il megafono, per meglio centralizzare un comando che non tollera contropoteri. Nella Fattoria degli Italiani cui anela, tutti sono eguali ma ce n'è uno, lui, più uguale degli altri. Tutti devono rispondere dei propri atti davanti alla legge ma non lui né la sua cerchia, che vive nella crepuscolare terra di nessuno dove pubblico e privato si confondono. Quando vuol nascondersi si rifugia nel privato, reclamandone l'inviolabilità. Quando passa al contrattacco cinge la corona e decreta: il mio corpo coincide con il re e non si tocca. Non si tocca neppure quello della mia corte, che condivide i miei privilegi finché mi resta fedele. Tutto sta a muoversi di continuo da una casella all'altra. Giolitti diceva di Mussolini: "Il fascismo è come una trottola, se si ferma cade".

Non è questo, d'altronde, il motivo per cui volle scendere in politica, fra il '92 e il '94, come si scende in uno scantinato per sfuggire il giudizio della pòlis? Non è, la sua, un'ininterrotta battaglia contro l'obbligatorietà dell'azione penale, sancita dalla Costituzione nell'articolo 112? Le parole che Fedele Confalonieri disse nel 2000 a Repubblica ("La verità è che se non fosse entrato in politica, se non avesse fondato Forza Italia, noi oggi saremmo sotto un ponte o in galera con l'accusa di mafia") lui non le ha mai smentite. Il presidente di Mediaset aggiunse anni dopo su La Stampa: "Trattare non gli piace. Gli riesce difficile prendere atto che la democrazia pone dei freni. Le leggi ad personam le fa per proteggersi. Se non fai la legge ad personam vai dentro". Confalonieri non parla solo del capo ma della sua cerchia ("Noi saremmo in galera"). Ambedue sono unti dalle urne.

È da questi scantinati che sgorgano le parole fatali escogitate anche oggi per confondere le menti: la democrazia concepita come libertà di ciascuno (Premier compreso) di fare quel che desidera; l'accusa di moralismo rivolta a chi respinge tali idee; l'allergia a ogni freno che fermi l'arbitrio del capo. Questa commedia degli errori (il privato è pubblico, il pubblico è privato, sono io a decidere cos'è morale, democratico, lecito) ha la forza dell'inafferrabilità perché continuamente gioca con le funzioni, le definizioni, piegandole a proprio piacimento. Non c'è parola detta nello spazio pubblico che non venga subito trasformata in flatus vocis, in nominalistica emissione di suono che si sperde fra altri suoni sino a divenire inaudibile scheggia di un dibattito dove ogni fumo pesa tranne la non fumosa verità dei fatti, e dei reati.

È quel che accade da anni, ogni volta che vengon poste questioni concrete che riguardano la separazione fra Stato-Chiesa, o la domanda di giustizia uguale per tutti, o l'etica richiesta a chi esercita funzioni pubbliche e non è quindi la copia esatta del comune cittadino, avendo secondo la Costituzione speciali doveri di "disciplina e onore" (art. 54). È qui che s'alza la nebbia: trasformando il concreto in astratto, sottomettendo ogni questione alle preferenze di chi, detenendo il potere politico e quello dell'informazione, decide dove finisce l'arbitrio, dove inizia la legge. A questo serve lo storpiamento di vocaboli come morale, laicità, giustizia. Serve a uccidere la laicità, soprannominata laicista. A soffocare la giustizia, detta giustizialismo se applicata con rigore. La morale è il freno più infame, e per svalutarla riceve il timbro di moralismo. Se potesse, Berlusconi si scaglierebbe contro il Decalogo, chiamandolo decalogismo. Già è accaduto. Hitler già se la prese con "il Dio del Sinai e i suoi insopportabili Non devi". Non c'è tabù che non sia esecrato dai poteri assoluti.

A questo deturpamento delle parole si dà il nome di liberalismo, con disinvoltura. Un liberalismo talmente sfrondato che neppure il tronco sopravvive: ridotto al diritto di fare quel che piace, senza ingerenze; impoverito da un laisser faire che già tanti mali ha fatto all'economia di mercato. Un liberalismo che s'inventa una storia breve, invece della lunga che ha sotto i piedi, e nulla sa del pensiero repubblicano da cui discende, secondo il quale sovrano, anche in democrazia, non è il popolo con le sue effimere passioni ma la legge che dura.

A queste condizioni la pòlis è ordinata: che sia abitata da cittadini partecipi perché bene informati, che non faccia degenerare la libertà in sopraffazione dei forti sui deboli. Che tutti si assoggettino alla legge e riconoscano l'utilità pubblica delle virtù private. Per pensatori liberali come Locke, Tocqueville, John Stuart Mill, non c'è libertà, se l'autorità suprema non è la legge. La nostra Costituzione dice la stessa cosa. Il popolo è sovrano, nell'articolo 1, ma nell'articolo 54 "tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi".

Quando Berlusconi decreta che la sua condizione di indagato è decisa solo dalle urne dice qualcosa di affatto indigesto per i liberali, perché la sovranità popolare senza separazione dei poteri e sottomissione alla legge di ciascuno (popolo, governi, chiese) è la volontà della maggioranza, e di poteri che pretendendo rappresentare un tutto diventano paralleli, rivali dello Stato. Tocqueville li riteneva letali, in democrazia: "Esiste una sorta di libertà corrotta, il cui uso è comune agli animali e all'uomo, e che consiste nel fare tutto quel che piace. Questa libertà è nemica di ogni autorità: sopporta con impazienza ogni regola. Con essa, diventiamo inferiori a noi stessi, nemici della verità e della pace". Sono anni che discutiamo di questo in Italia: se la legge abbia ancora un significato, se la morale pubblica sia una bussola o una contingenza. È ora di deciderlo e chiudere la discussione.

Il bersaglio di chi si ribella a simili vincoli è la morale (per i poteri ecclesiastici è la laicità), descritta come sovversiva, giacobina. Ma anche qui l'equivoco è palese: nello stesso momento in cui si atteggiano a anticonformisti minoritari, i ribelli si riscoprono giacobini tutori di valori morali non negoziabili, e con tutta la forza della maggioranza negano al singolo la libertà di morire naturalmente, non attaccato alle macchine. Tanto più grave il silenzio della Chiesa sull'etica pubblica. In fondo questa dovrebbe essere l'occasione di far vedere che il suo spazio nella pòlis non è paragonabile a quello di cricche e cose nostre. Se vuol rinascere, la Chiesa non può non rompere con Berlusconi, a meno di non divenire anch'essa potere sfrenato e parallelo. L'appello di Bagnasco a "più trasparenza" è tardivo e inadeguato.

Ezio Mauro ha giustamente difeso la breve vita del partito d'azione, soprattutto torinese. È vero, c'era un forte afflato morale nell'azionismo: forse si spense per questo, lasciandoci tuttavia in eredità il pensare onesto di Norberto Bobbio, Vittorio Foa. Senza gli azionisti non avremmo la Costituzione che abbiamo, la sua benefica laicità, la sua versatilità. Chi li bolla come moralisti teme come la peste che rinasca un'alleanza fra sinistra e liberali, in difesa dell'etica pubblica. Il mondo cui aspira l'antimoralista è la Fattoria degli Animali, dove non la legge comanda ma un unico capo, circondato da cerchie di bravi che a nessuno rispondono se non a lui.

lunedì 14 febbraio 2011

Tremate tremate le donne son tornate!



Una lezione ai maschi

di ADRIANO SOFRI

È inevitabile che le manifestazioni collettive sollevino qualche dubbio, e anche quella delle donne di domenica. Non avevo mai sentito tante buone ragioni per aderire a una manifestazione. E non avevo mai sentito pretesti così capziosi e vanesi per non aderire. Lo svolgimento è stato magnifico.

Tanto tempo fa, noi uomini (molti di noi, almeno) che respingevamo con sdegno l'eventualità di stare mai dalla parte dei padroni, fummo costretti a un estremo imbarazzo, o a vergognarci francamente, quando di colpo ci venne rinfacciato di essere i padroni nel rapporto con le "nostre" donne, e le altre. Non era facile reagire: diventare donne, o un altro dei generi possibili, riesce solo a pochi, e restare maschi sapendo di essere in torto era seccante. A parte qualche provvedimento di correzione personale - palliativi, del resto - l'ideale era che le donne contassero per la maggioranza che sono, e per l'intelligenza peculiare di cui qualche millennio di raggiri e prepotenze le ha dotate, e allora gli uomini potessero rivendicarsi tali a ricominciare da una leale condizione di minorità.

Che questo avvenisse nell'arco della nostra esistenza personale, nonostante la longevità moderna, era da escludere. E per giunta la storia mondiale è andata in un modo tale che gli uomini si sono presi una quantità di rivalse, cruente o no, sulla risalita delle donne. Naturalmente donne e uomini sono categorie troppo generali perché si trascuri il rilievo dei casi individuali, cioè delle persone. Va da sé che anche delle donne possono essere scemissime, e titolari di dicastero.

Tuttavia la statistica conserva una sua presa. Ho visto che fra pochi giorni si apre a Bruxelles una importante fiera del libro intitolata "Il mondo appartiene alle donne". Immagino che sia un auspicio, e anche così lascia perplessi, per quell'intonazione proprietaria, peraltro giustificata dalla convinzione opposta, data per ovvia, che il mondo appartenga agli uomini. (Tant'è vero che dicemmo "uomini" invece che maschi o esseri umani, per annetterci le donne).

Noi uomini non possiamo convocare una nostra manifestazione, perché tutte le manifestazioni sono state nostre - abbiamo finito a volte per invadere di forza quelle di sole donne. Non proclamiamo mai di fare qualcosa "in quanto uomini", perché tutto quello che facciamo lo facciamo in quanto uomini. Possiamo immaginare ora che il mondo non ci appartenga più, o almeno che noi tutti, donne e uomini, e cavalli e tonni rossi, gli apparteniamo quanto lui appartiene a noi.

Ci vorrà parecchio tempo, nella migliore delle ipotesi. Però, per uomini fieri e sportivi e azionisti e allegri di minoranza come ci figuriamo, sarà bellissimo dividerci accanitamente sull'accettabilità delle quote celesti, e sfilare con i cartelli che dicono: "Non siamo panda giganti", e alla fine indire cortei in 2.300 città ammettendo, anzi richiedendo, la partecipazione di donne. Da domenica, ci siamo un po' meno lontani.

Dignitosi ma indignati



La bandiera della dignità

di STEFANO RODOTÀ

È tempo di liberarsi dello spirito minoritario che, malgrado tutto, continua a lambire anche qualche parte della stessa opposizione. È questa l'indicazione (la lezione?) che viene dai molti luoghi che da molti mesi vedono la presenza costante di centinaia di migliaia di persone che, con continuità e passione, rivendicano libertà e diritti: un fenomeno che non può essere capito con gli schemi, invecchiati, del "risveglio della società civile" o di qualche partito "a vocazione maggioritaria". Non sono fiammate destinate a spegnersi, esasperazioni d'un giorno, generiche contrapposizioni tra Piazza e Palazzo. Non sono frammenti di società, grumi di interesse. È un movimento costante che accompagna ormai la politica italiana, e a questa indica le vie per ritrovare un senso. È l'opposto delle maggioranze "silenziose" che si consegnano, passive, in mani altrui.

Donne, lavoratori, studenti, mondo della cultura si sono mossi guidati da un sentimento comune, che unifica iniziative solo nelle apparenze diverse. Questo sentimento si chiama dignità. Dignità nel lavoro, che non può essere riconsegnato al potere autocratico di nessun padrone. Dignità nel costruire liberamente la propria personalità, che ha il suo fondamento nell'accesso alla conoscenza, nella produzione del sapere critico. Dignità d'ogni persona, che dal pensiero delle donne ha ricevuto un respiro che permette di guardare al mondo con una profondità prima assente.

Proprio da questo sguardo più largo sono nate le condizioni per una manifestazione che non si è chiusa in nessuno schema. Le donne che l'hanno promossa, le donne che con il loro sapere ne hanno accompagnato la preparazione senza rimanere prigioniere di alcuni stereotipi della stessa cultura femminista, hanno colto lo spirito del tempo, dimostrando quanta fecondità vi sia ancora in quella cultura, dove l'intreccio tra libertà, dignità, relazione è capace di generare opportunità non alla portata della tradizionale cultura politica. È qui la radice dello straordinario successo di domenica, della consapevolezza d'essere di fronte ad una opportunità che non poteva essere perduta e che ha spinto tanti uomini ad essere presenti e tante donne a non cedere alla tentazione di rifiutarli, perché non s'era di fronte ad una generica "solidarietà" o alla pretesa di impadronirsi della parola altrui.

Chi è rimasto prigioniero di se stesso, delle proprie ossessioni, è il Presidente dal consiglio, al quale era offerta una straordinaria opportunità per rimanere silenzioso, una volta tanto rispettoso degli altri. E invece altro non ha saputo trovare che le parole logore della polemica aggressiva, testimonianza eloquente della sua incapacità di comprendere i fenomeni sociali fuori di una rozza logica del potere. La vera faziosità è quella sua e di chi lo circonda, privi come sono di qualsiasi strumento culturale e quindi sempre più votati al rifiuto d'ogni dimensione argomentativa. Dignità, per loro, è parola senza senso, parte d'una lingua che sono incapaci di parlare.

Nelle diverse manifestazioni, invece, si coglie la sintonia con le dinamiche che segnano questi anni. Le grandi ricerche di Luis Dumont ci hanno aiutato nel cogliere il passaggio dall'homo hierarchicus all'homo aequalis. Ma nei tempi recenti quel cammino si è allungato, ha visto comparire i tratti l'homo dignus, e proprio la dignità segna sempre più esplicitamente l'inizio del millennio, costituisce il punto d'avvio, il fondamento di costituzioni e carte dei diritti. Sul terreno dei principi questo è il vero lascito del costituzionalismo dell'ultima fase. Se la "rivoluzione dell'eguaglianza" era stato il connotato della modernità, la "rivoluzione della dignità" segna un tempo nuovo, è figlia del Novecento tragico, apre l'era della "costituzionalizzazione" della persona e dei nuovi rapporti che la legano all'innovazione scientifica e tecnologica.

"Per vivere - ci ha ricordato Primo Levi - occorre un'identità, ossia una dignità". Solo da qui, dalla radice dell'umanità, può riprendere il cammino dei diritti. E proprio la forza unificante della dignità ci allontana da una costruzione dell'identità oppositiva, escludente, violenta, che ha giustamente spinto Francesco Remotti a scrivere contro quell'"ossessione identitaria" che non solo nel nostro paese sta avvelenando la convivenza civile. La dignità sociale, quella di cui ci parla l'articolo 3 della Costituzione, è invece costruzione di legami sociali, è anche la dignità dell'altro, dunque qualcosa che unifica e non divide, e che così produce rispetto e eguaglianza.

Le manifestazioni di questi tempi, e quella di domenica con evidenza particolare, rivendicano il diritto a "un'esistenza libera e dignitosa". Sono le parole che leggiamo nell'articolo 36 della Costituzione che descrivono una condizione umana e sottolineano il nesso che lega inscindibilmente libertà e dignità. Più avanti, quando l'articolo 41 esclude che l'iniziativa economica privata possa svolgersi in contrasto con sicurezza, libertà e dignità umana, di nuovo questi due principi appaiono inscindibili, e si può comprendere, allora, quale lacerazione provocherebbe nel tessuto costituzionale la minacciata riforma di quell'articolo, un vero "sbrego", come amava definire le sue idee di riforma costituzionale la franchezza cinica di Gianfranco Miglio. Intorno alla dignità, dunque, si delinea un nuovo rapporto tra principi, che vede la dignità dialogare con inedita efficacia con libertà e eguaglianza. Questa, peraltro, è la via segnata dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Qui, dopo aver sottolineato nel Preambolo che l'Unione "pone la persona al centro della sua azione", la Carta si apre con una affermazione inequivocabile: "La dignità umana è inviolabile".

Proprio questo quadro di principi costituisce il contesto all'interno del quale i diversi movimenti si sono concretamente mossi, individuando così quella che deve essere considerata la vera agenda politica, la piattaforma comune delle forze di opposizione. Diritti delle persone, lavoro, conoscenza non si presentano come astrazioni. Ciascuna di quelle parole rinvia non solo a bisogni concreti, ma individua ormai pure forze davvero " politiche", che si presentano con evidenza sempre maggiore come soggetti attivi perché quei bisogni possano essere soddisfatti.

Viene così rovesciato le schema dell'antipolitica, e si pone il problema della capacità dei diversi gruppi di opposizione di trovare legami veri con questa realtà. I segnali venuti finora sono deboli, troppo spesso sopraffatti dalle eterne logiche oligarchiche, dagli egoismi identitari di ciascun partito o gruppo politico. Si lamenta che ai problemi reali non si dia il giusto risalto. Ma chi è responsabile di tutto questo? Non quelli che con quei problemi si sono identificati, sì che oggi la responsabilità di farli entrare nel modo corretto nell'agenda politica ufficiale dipende dalla capacità dei partiti di trovare il giusto rapporto con i movimenti presenti nella società, di essere per loro interlocutori credibili.

Torna così la questione iniziale, perché proprio questo è il cammino da seguire per abbandonare ogni spirito minoritario e ridare vigore ad una vera politica di opposizione. Le manifestazioni di questi mesi, infatti, dovrebbero essere valutate partendo anche da un dato che tutte le analisi serie sottolineano continuamente, e cioè che Berlusconi non ha il consenso della maggioranza degli italiani, non avendo mai superato il 37%. Il bagno di realtà di domenica, che ne accompagna tanti altri, dovrebbe indurre a volgere lo sguardo verso la vera maggioranza, perché solo così un vero cambiamento è possibile.

INDIGNIAMOCI! L'egiziano che è in noi



"Come in Egitto", a sinistra cresce la voglia di piazza

Nell'opposizione il 25% per una mobilitazione continua. In campo un movimento più vasto di quanto furono i girotondi. Quasi quattro italiani su dieci sostengono le ragioni della protesta

di ROBERTO BIORCIO e FABIO BORDIGNON da Repubblica 14/02

Anche in Italia come in Egitto? Berlusconi come Mubarak? Il solo accostamento appare ardito, quantomeno improprio. Ma una componente non trascurabile del fronte anti-berlusconiano non esclude, esplicitamente, una soluzione "all'egiziana". La nuova ondata di protesta contro il Governo e contro il premier sta assumendo proporzioni ogni giorno più rilevanti: coinvolge una costellazione di soggetti diversi, sul piano sociale; attraversa le forze di opposizione e in particolare il centro-sinistra. Soprattutto, taglia a metà il Pd, il cui elettorato si presenta diviso sulla strategia per "battere" Berlusconi.

Quasi quattro italiani su dieci ne sostengono le ragioni (38%), uno su quattro si dice pronto a manifestare (e circa il 4% dice di averlo già fatto). Sono queste le misure dell'Onda 2011, raccolte dall'Atlante Politico di Demos. Il profilo sociale e culturale della protesta ricorda quello di altre mobilitazioni, in particolare i girotondi del 2002. Con due importanti novità: le dimensioni del fenomeno, testimoniate dalla vasta partecipazione alle iniziative e dal consenso raccolto presso l'opinione pubblica; il ruolo assunto dai giovani e dalle donne. In particolare, la partecipazione femminile, nelle generazioni sotto i 45 anni, ha superato nettamente quella maschile, rovesciando luoghi comuni e tendenze tradizionali. E l'ampia manifestazione di ieri ha sicuramente accentuato questo carattere.

Come già avvenuto in passato, l'onda di protesta nasce da un deficit di rappresentanza dei partiti di opposizione, ma il suo perimetro appare oggi meno sovrapponibile a quello del centro-sinistra. L'accordo con i manifestanti è massimo tra gli elettori di Sel (84%) e dell'IdV (77%), ma rimane maggioritario anche tra quelli del Pd (71%) e del movimento 5 Stelle (53%). Anche nell'area delle formazioni centriste, come Fli e Udc, tradizionalmente critiche verso il protagonismo della "piazza", più di un terzo degli intervistati simpatizza con la protesta. Se consideriamo, poi, la disponibilità ad attivarsi, essa coinvolge circa i due terzi di chi sceglie i partiti di Vendola e Di Pietro, mentre democratici e grillini si fermano poco sotto la soglia del 50%.

Questa articolazione interna alle diverse anime dell'opposizione richiama, in ampia misura, le divisioni su come contrastare il governo e togliere il potere a Berlusconi. In questa porzione di elettorato prevale l'idea di ricorrere al voto (47%), ma in molti ritengono più efficace il sostegno alla magistratura (30%) o il ricorso alla piazza (19%). Quasi una persona su quattro, inoltre, si dice favorevole a una mobilitazione ampia e continuativa, che costringa il premier alle dimissioni, così come è avvenuto in Egitto per Mubarak. Un dato interessante, e in parte sorprendente, che emerge dalla componente più radicale del fronte anti-berlusconiano, attenta (anche in prospettiva interna) al fermento politico che investe il Mediterraneo. L'elettorato del Pd appare in bilico tra queste diverse prospettive. Una divaricazione che aiuta a spiegare le esitazioni del partito di Bersani nella costruzione delle alleanze (ma anche, probabilmente, le difficoltà nell'intercettare il malcontento verso il governo).

mercoledì 2 febbraio 2011

Conto alla rovescia (speriamo)




OLTRE IL MONTE DI RUBY


di Ferdinando Imposimato

Mentre la stampa dedica decine di pagine alla telenovela Ruby-premier, eventi gravi come la guerra in Afghanistan e la morte dei soldati italiani, la vicenda delle trattative fra Stato e mafia, volute per consentire la nascita del regime, e la verita' sui responsabili delle stragi, sono quasi del tutto oscurate. La morte dell'alpino Luca Sanna, colpito da un talebano nella base di Baia Murghab, e' stata relegata dai media nelle pagine interne. I giornali sono a caccia delle telefonate ose' delle presunte amanti del premier. E tuttavia, tentiamo una breve analisi della situazione.
Il capo del governo e' piu' che mai abbarbicato alla poltrona di premier e trova nuovi adepti, pronti a vendersi al migliore offerente pur di non lasciare gli scranni in parlamento. Ma il destino del Capo sembra segnato dal nuovo atteggiamento di Umberto Bossi. Che non gli offre il sostegno di sempre. Anzi lo invita a non attaccare i giudici e gli chiede perentoriamente il varo del federalismo. Salvo scaricarlo subito dopo l'approvazione dei decreti. Se cio' non avverra' in tempi brevissimi, la Lega, forte delle previsioni che la vedono in ascesa, andra' lo stesso alle elezioni anticipate. Il disegno di Bossi e' chiaro: ingoiare quest'ultimo rospo per non pregiudicare il cammino del federalismo secessionista. E, subito dopo, liberarsi dell'alleato scomodo, indifendibile di fronte al popolo di Pontida, puntando alle urne per un nuovo, sicuro balzo in avanti.
Ma sembra difficile che il premier riesca a varare le riforme sulla giustizia che annuncia ogni giorno. Un attacco alla giustizia sarebbe insopportabile anche per i leghisti.

Nasce Alternativa





L'ALTERNATIVA PER LA DEMOCRAZIA E LA LEGALITA'

di Redazione www.lavocedelevoci.it

[ 02/02/2011]



Dentro o fuori. Da Napoli, dove tutte le tradizionali categorie sono letteralmente saltate di fronte alla sanguinosa guerra in atto, dichiarata allo Stato da una camorra resa sempre piu' invincibile grazie a protezioni altolocate e connivenze istituzionali diffuse, parte la piu' grande ed estesa mobilitazione anticamorra degli ultimi anni, che chiama a raccolta gruppi, associazioni, centri sociali, cittadini. E c'e' una parola d'ordine: o contro le mafie o con le mafie. Qui dentro, in questa citta', tertium non datur. Non piu'.
A guidare la parte del Paese (perche' non solo di Napoli si tratta, vista la penetrazione spinta dell'economia camorristica nei gangli dell'intera penisola) che non intende piu' stare a guardare, sono due fra le massime personalita' italiane dalle mani libere. Due intelligenze preziose per le sorti della democrazia e, proprio per questo, fuoriusciti da partiti e istituzioni: Giulietto Chiesa ed Elio Veltri, rispettivamente alla testa dei movimenti L'Alternativa e Democrazia e legalita', che contano diverse migliaia di sostenitori e militanti da Nord a Sud. Ed oggi scendono in campo insieme partendo da Napoli, epicentro cruento delle emergenze nazionali.
Ma guardiamo piu' da vicino l'identita' dei due movimenti. E partiamo da Alternativa, il laboratorio politico culturale lanciato il 17 aprile 2010 in continuita' con l'associazione Megachip - Democrazia nella comunicazione, di cui raccoglie ed espande l'attivita' durata undici anni. Punto centrale dell'analisi di Giulietto Chiesa e' la transizione, la fase epocale inaugurata dalla crisi economica. Una transizione che morde, affama, eppure di cui nessuno parla compiutamente. «La transizione - avverte Chiesa - non e' ancora entrata nel discorso politico corrente. Perche' questo cominci ad avvenire occorre: a) vedere la profondita' e irreversibilita' della crisi. Condizione essenziale per cominciare a fronteggiarla nell'interesse dei piu' deboli, strappando ai piu' forti il privilegio della proposta; b) liberarci di un'elite politica della sinistra e della democrazia che e' ormai simile ad una cupola complice del potere. Con questi non si puo' andare da nessuna parte, per la semplice ragione che nemmeno loro sanno dove andare. E certo non interpretano piu' i sentimenti dei milioni di inquieti».
La “nostra” transizione «non puo' venire da Berlusconi, ne' da Marchionne, da Bersani o da Camusso. Loro sono gli organi della scimmia al comando dell'aereo che sta precipitando. La transizione dobbiamo pensarla noi e organizzarci per imporla, con il sostegno della gente». Ed e' proprio sull'onda dello slogan «per la formazione di un soggetto politico che governi la transizione» che sta nascendo Uniti e Diversi, seconda tappa di quella sintesi di pensiero ed azione che vede insieme L'Alternativa, il Movimento per la Decrescita felice ed una serie di altre interessanti realta' associative, da Per il Bene Comune di Monia Benini a Movimento Zero di Massimo Fini.
Dopo gli affollati appuntamenti di Genova (novembre 2010 con 80 delegati da tutta Italia e l'adesione di personalita' come Franco Cardini e Roberto Savio del Forum Sociale Mondiale), poi Bologna (16 dicembre), la terza tappa sara' Napoli.
L'appuntamento del capoluogo partenopeo (11 febbraio ore 16 all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), che segnera' la strategica sinergia fra Alternativa (con tutta la rete di sostegno) e Democrazia e legalita', avra' una forte connotazione anti-camorra. In linea, del resto, con analisi, studi, linee politiche, libri e pubbliche manifestazioni che vedono da anni protagonista Elio Veltri (basti ricordare le lucidissime ricostruzioni riportate nel suo ultimo libro, Mafia Pulita, scritto a quattro mani col procuratore capo di Bari Antonio Laudati).
«Il nostro - spiega Veltri - e' un articolato Progetto-Programma, con regole condivise per realizzarlo e comportamenti conseguenti. Considerati i livelli di illegalita' e di criminalita' del Paese, di assoluta indifferenza all'etica pubblica e la fuga dei partiti nel momento di assumersi responsabilita' politiche e morali nei confronti dei propri iscritti meritevoli di essere allontanati dalla politica, prima che arrivi la magistratura, la triade Progetto-Regole-Comportamenti, sposata dal centro sinistra, sarebbe davvero una bella novita'».
Il rischio, come si vede, e' che ancora una volta le intelligenze piu' brillanti della sinistra si lascino paralizzare dall'eterno, devastante dilemma sempre dietro l'angolo della Storia: contrastare e proporre dall'esterno, attraverso mobilitazioni di pensiero, di uomini e donne? Oppure provare a farlo dall'interno delle istituzioni, senza lasciare il pallino delle decisioni in mano ai soliti volponi dei partiti?
La risposta c'e' gia'. Di fronte alle emergenze nazionali, che a Napoli scrivono una cronaca quotidiana fatta di sangue, soprusi ed anarchia programmata, quelle ipotesi sono entrambe valide: debbono e possono convivere, senza nulla togliere l'una all'altra.
A noi cittadini il compito di saper cogliere la opportunita' di un momento decisivo per restituire il futuro ad un Paese che oggi sempre piu' la stampa internazionale dipinge come la patria di mafie e camorre. «La nostra utopia - conclude Veltri - e' credere possibili anche le cose impossibili e cominciare a farle».

Il paese di Pulcinella




BUNGA BUNGA E SEGRETO DI STATO

di Andrea Cinquegrani [ 02/02/2011]



Pochi, pochissimi sanno - perche' non informati dai media, tutti soap, reality e bunga bunga - che la Corte Costituzionale, dopo aver affrontato il nodo del “legittimo impedimento”, dovra' pronunciarsi a breve su un tema ancor piu' scottante: quello relativo al segreto di stato. Cosi' e' capitato con il caso Abu Omar, dove i servizi capeggiati da Nicolo' Pollari l'hanno fatta franca (tanto che la sentenza d'appello del tribunale di Milano ha scagionato spioni e 007); e cosi' rischia di capitare per un caso forse ancor piu' eclatante, ossia il dossieraggio (e chissa' quanto altro) contro magistrati, avvocati, politici e giornalisti ordinato dal premier ed eseguito con cura dai servizi made in Pollari. In questo numero della Voce ricostruiamo l'intera vicenda, da perfetto paese delle banane, una dittatura che neanche Marcos o Amin Dada si sarebbero sognati. Con centinaia di vittime spiate e controllate per anni (almeno 5, dal 2001 al 2006). Una piccola pattuglia si e' costituita parte civile, il processo e' a Perugia: ma ora bocce ferme in attesa della Consulta, che dovra' dire se c'e' segreto di stato o no. Vi pare una questione da poco? Un premier che ordina dossieraggi illeciti a danno di centinaia di cittadini inconsapevoli? Roba ai confini della realta', ma non da noi. Perche' vale la legge: non per macigni va processato il premier, ma per la sua ossessiva caccia alle zoccole. Non perche' esalta le virtu' (e con lui il fido Dell'Utri) dello stalliere Mangano: ma per il pelo della D'Addario. Non per lo scudo fiscale o per i paradisi dove sono acquartierate decine e decine di societa' a lui riconducibili, ma per Noemi e il compleanno di Casoria.
C'e' un caso Fiat che sta ammazzando anni di lotte operaie e non solo, con il ricatto siglato da un referendum farsa e avallato a priori da un premier che commenta: «se Marchionne perde e' giusto se ne vada dall'Italia e sposti tutti gli investimenti all'estero»? Ma chissenefrega: notizia ormai, a poche ore dal risultato, relegata nelle pagine interne di Repubblica economia. La crisi, quella vera, sta esplodendo adesso e perfino il quieto Tremonti lo fa intuire: ma cosa fanno lorsignori, i commissari Davanzoni (oggi alle prese col secondo Decalogo...) del quotidiano made in De Benedetti (un piduista come Berlusconi, ma guai a farlo sapere in giro)? Ogni giorno, ossessive, per una settimana e piu', 12-14 pagine su bunga stories. Continuano a morire uomini in Afghanistan per una guerra d'invasione voluta dagli Usa? Bazzecole, meglio Ruby e escort, per strarincoglionire ancor di piu' l'esercito di tontitaliani.
C'e' un conflitto d'interessi diventato il cancro malefico che uccide il Paese, in tutti gli angoli di finanza, economia e pubblica amministrazione? Chissenefrega. Vale la regola dell'Inciucio: non e' stato poi D'Alema a certificare la eleggibilita' di Berlusconi premier, come ha piu' volte documentato sulla Voce Imposimato? Non lo ha confessato candido Violante, in una seduta parlamentare del 2001 oscurata dai media, che era stato proprio il Maximo a non volere una legge sul conflitto d'interessi, perche' d'accordo col Cavaliere nel non toccare le sue antenne? “Ma fateci il piacere” avrebbe commentato Toto'.
Ma fateci il piacere, finta opposizione made in Bersani e Veltroni neo rottamatore, il nuovo Nenni che alleva il Craxi de noantri (caso mai con il fido consigliori Amato al seguito). Comunque, ci pensano bene, al nostro Futuro e alla nostra Liberta', i neo compagni (di merende?) Fini e Casini, con la stella Montezemolo nel taschino (e le strisce yankee per l'ok). I loro Servizi stanno partorendo i primi frutti... Vero, papi, che di Servizi te ne intendevi?

www.lavocedellevoci.it

Time to sack him

martedì 1 febbraio 2011

Dietro i finiani un retroterra inquietante



Questo articolo è tratto dal sito www.lavocedellevoci.it, che pubblica online il periodico omonimo, di cui è direttore un mio amico giornalista napoletano che si chiama Andrea Cinquegrani.Sono giornalisti seri ed informati dei fatti quelli che vi scrivono e -se visitate il sito- noterete quanti nomi illustri collaborino con la testata.Risiedono per giunta a Napoli e quindi è evidente che il territorio lo conoscono meglio di chiunque altro. L'analisi che leggerete è devastante per le speranze che in molti - anche a sinistra - ripongono su eventuali ribaltoni finiani. Personalmente ritengo che il tessuto italiano sia ormai così penetrato dalle mafie che la classe dirigente politica sarà difficile anche in futuro non ne sia espressione.Mai come oggi vale la famosa frase di Tomasi di Lampedusa che per l'Italia sosteneva che tutto debba cambiare perchè nulla cambi. La Sicilia è e sarà la tragica perenne metafora di questo avvilente paese.

FUTURO E LIBERTA' - LA ZUPPA DEL CASALE

di Rita Pennarola [ 07/12/2011]

Ha un epicentro tutto casertano e una roccaforte a Casal di Principe il ribaltone delle alleanze che ha determinato la crisi politica nel Paese. E' in Terra di Lavoro, feudo elettorale dei contendenti Nicola Cosentino e Italo Bocchino, che si e' definito fin dalla primavera scorsa il quadro degli accordi con l'Udc. E dalla stessa area potrebbero arrivare i massicci finanziamenti su cui contano i finiani. Attraverso il proconsole Bocchino.
* * *
Trecento generazioni e centocinquant'anni di storia unitaria. Ma non sono bastati ad una gran parte del Paese per parlare la lingua della stessa nazione. In aree estesissime e numericamente maggioritarie del sud e della Campania milioni di persone interloquiscono correntemente fra loro usando lo stretto dialetto degli antenati. Il dato piu' sorprendente riguarda le migliaia di giovani che, appena fuori dalle aule scolastiche, riprendono a scambiarsi uno slang tribale e incomprensibile. Al primo posto, fra coloro che si servono esclusivamente di tale idioma, ci sono naturalmente gli esponenti dei clan camorristici, compreso lo sconfinato indotto di questa autentica holding affaristico-criminale. Il riferimento e' alle famiglie rimaste nelle terre d'origine, dove ancora oggi si reggono le fila di business che travalicano l'Europa e l'oceano intero. Producendo un giro d'affari stimato in non meno di cinquanta miliardi di euro l'anno.
La premessa e' indispensabile per poterci addentrare nelle logiche - finora rimaste oscure - del colpo di mano che ha spaccato la maggioranza di governo, senza che nessun analista politico abbia spiegato a fondo le ragioni vere della scissione. Ma la crisi dell'esecutivo ha forse un epicentro inconfessabile. Che si trova in zona Casal di Principe e dintorni.
E allora dobbiamo fare un piccolo passo indietro. A fine 2009 il Pdl si prepara, al pari di tutte le altre forze politiche, alle amministrative di primavera. E la Campania diventa il laboratorio in cui vanno avanti le prove generali della frattura politica. Non soltanto alla Regione, dove pure lo scontro fra Italo Bocchino e Nicola Cosentino si fa di ora in ora incandescente, ma soprattutto nella provincia di Caserta. Una storia meno conosciuta, ma che la dice lunga su cio' che di li' a poco sarebbe accaduto nel Paese.
Novembre 2009. Esplode sulla stampa e a livello giudiziario la richiesta d'arresto emessa dal gip partenopeo Raffaele Piccirillo a carico di Cosentino, fino a quel momento in rampa di lancio per la presidenza della Regione Campania. I giochi, all'interno del Pdl, cominciano a sparigliarsi. Nel casertano si apre quella prima crepa che qualche mese dopo dara' origine a Futuro e Liberta'.

BOCCHINO&FAMILY

«Il principale competitor di Cosentino nello stesso bacino elettorale - spiega un berlusconiano della zona - e' stato da sempre Italo Bocchino, famiglia originaria di Frignano, piccolo comune dell'agro aversano, e una sorella, Patrizia Bocchino, ex esponente del Msi nel consiglio comunale di Aversa». Ed e' proprio al marito di Patrizia che Italo Bocchino deve il forte radicamento su quel territorio nel quale - come ha ammesso in numerose interviste - lui non vive piu' da decenni. Il cognato del leader di Fli si chiama Antonio Schiavone ed e' nato a Casal di Principe il 25 febbraio del 1961. Le date sono importanti, soprattutto in una zona dove il cognome Schiavone suona come un sinistro avvertimento per centinaia di famiglie, compresi naturalmente gli omonimi o i lontani parenti. «Guardate - continua il nostro interlocutore - sui ventimila abitanti di Casale di famiglie che si chiamano Schiavone ne contiamo all'incirca 500. Le parentele? Uh, quelle alla lontana sono infinite...».
Ex segretario cittadino del Pdl ad Aversa, Antonio Schiavone guida ora, of course, la pattuglia dei finiani. Ma in quella vigilia di campagna elettorale 2010 fu proprio lui il gran tessitore degli accordi con l'Udc per lanciare Domenico Zinzi alla presidenza della Provincia di Caserta, dove l'ex democristiano di lungo corso siede tuttora.
Sabato 13 marzo 2010. Al Grand Hotel Vanvitelli di Caserta arriva Italo Bocchino «che incontrera' - riporta la stampa locale - gli amici provenienti da tutta Terra di Lavoro. Insieme a Bocchino saranno presenti i candidati del Pdl alla presidenza della Provincia di Caserta, Domenico Zinzi, e alla presidenza della Regione, Stefano Caldoro. I lavori saranno introdotti da Antonio Schiavone, dirigente provinciale del Pdl».
Vero o presunto che fosse, a quel punto il sodalizio politico fra Bocchino e Cosentino si era definitivamente frantumato. Un sodalizio sul quale si allunga ancora l'ombra delle dichiarazioni rese ai pubblici ministeri antimafia di Napoli dal collaboratore Gaetano Vassallo, per decenni uomo dei clan nel settore dei rifiuti: «Bidognetti Raffaele alla mia presenza e alla presenza di Di Tella Antonio riferi' che gli onorevoli Italo Bocchino, Nicola Cosentino, Gennaro Coronella e (Mario) Landolfi facevano parte del “nostro tessuto camorristico”». Rivelazioni smentite da Bocchino, il quale non e' indagato per questa vicenda ma per l'inchiesta “Magnanapoli” (associazione a delinquere e turbativa d'asta).

TANTA VOGLIA DI UDC

Mentre i magistrati sono al lavoro sulle ipotesi di colpevolezza, noi restiamo all'Udc casertano. A benedire l'intesa in funzione anti-Cosentino tra Mimi' Zinzi e Italo Bocchino non era stato Pier Ferdinando Casini, ma il segretario nazionale Lorenzo Cesa, che troviamo immortalato al fianco di Zinzi durante tutta la campagna elettorale. «E questo - osservano in zona - spiega anche l'insistenza con cui oggi il Fli di Bocchino insiste per allargare la maggioranza del governo nazionale all'Udc senza che il diretto interessato, Casini, ne abbia mai fatto esplicita richiesta. Al contrario, pare anzi che si schermisca di fronte a simili ipotesi». Il patto Bocchino-Udc, suggellato a Caserta, era evidentemente destinato fin dall'inizio ad allargarsi, coinvolgendo i destini politici del Paese.
Del resto, ad ulteriore riprova di quell'asse era arrivata, nello stesso periodo, la nomination al consiglio provinciale di Caserta di un altro candidato del cuore di Zinzi, sempre benedetto da Bocchino: si tratta di Francesco Schiavone da Casal di Principe, ex assessore nel suo paese ed immortalato anche lui al fianco di Cesa in diverse occasioni. Schiavone non ce l'ha fatta. Cosi' come al palo - ma stavolta per ordine della questura - e' rimasto un altro fedelissimo di Zinzi in procinto di entrare alla Provincia. Stiamo parlando di Luigi Cassandra, 39 anni, gia' consigliere comunale e assessore - in quota Zinzi - al Comune di Trentola Ducenta. In piena campagna elettorale Cassandra era stato bloccato dai Carabinieri di Aversa «dopo essere stato piu' volte sorpreso - scrive la stampa locale - dalle forze dell'ordine in compagnia di persone ritenute vicine alla camorra, tra cui Salvatore Laiso detto “Chicchinoss”, arrestato piu' volte per estorsione aggravata dal metodo mafioso e ritenuto dagli inquirenti vicino al clan Schiavone».
Risultato: le forze dell'ordine hanno notificato a Cassandra l'intimazione, emanata dal questore, ad astenersi dalla vita politica per tre anni. L'uomo, del resto, era tutt'altro che insospettabile: gia' coinvolto in indagini per truffa, ricettazione, minaccia e insolvenza fraudolenta, era comunque riuscito a spuntare la nomination nelle fila di Casini e Cesa. Di piu': la candidatura di Luigi Cassandra era stata annunciata a febbraio in pompa magna: «Il collegio Trentola Ducenta-San Marcellino - si legge in un comunicato dell'Udc locale - vedra' scendere in campo il consigliere comunale Luigi Cassandra. La scelta, avvenuta dopo una serie di incontri che si sono tenuti tra il gruppo di San Marcellino e quello di Trentola Ducenta, ha l'appoggio incondizionato del gruppo di San Marcellino e dell'ex sindaco Luigi Bocchino».
Per un Cassandra che va, c'e' un Cesa che resta, nonostante tutto: il segretario nazionale e' rimasto al vertice del partito, benche' le indagini a suo carico nell'ambito dell'inchiesta Poseidone (la stessa che fu “scippata” a Luigi De Magistris) a novembre abbiano prodotto elementi tali da indurre il gip di Roma Rosalba Liso a sequestrargli beni quali una Mercedes, terreni di famiglia ad Arcinazzo, nonche' le quote della societa' che gestisce l'Auditorium di via della Conciliazione. «Oggi pero' in nome di una presunta “legalita'”, Bocchino chiede a gran voce che l'Udc entri nella maggioranza», sbottano in un circolo del Pdl a Caserta.

FINIANI A TUTTO GAS

Ma l'altro quesito che non trova risposta in tutto il sommovimento che ha dato origine a Fli e' un altro: privi come sono ora del finanziamento pubblico, a quali risorse economiche pensano di attingere gli uomini traghettati da Gianfranco Fini ed Italo Bocchino in Futuro e Liberta'? In soldoni, chi finanzia il nuovo partito e perche' lo fa? Qui, fra le tante congetture avanzate, per trovare un bandolo ci conviene tornare a Caserta. La storia e' quella della famiglia Di Rosa, industriali petroliferi, legati ad Italo Bocchino da un antico feeling politico. La saga dei Di Rosa ricorda da vicino quella di ‘o mericano Cosentino. Anche stavolta infatti ci imbattiamo in un capostipite, ex operaio, che nel dopoguerra comincia a fare fortuna con gas per riscaldamento e pompe di benzina. Il manager degli anni duemila e' suo figlio, Tommaso Di Rosa, ormai ai vertici di Confindustria Caserta ed alla guida di un impero che spazia dagli idrocarburi all'edilizia. «Alla qualifica di “dott.” tiene moltissimo - raccontano a Santa Maria Capua Vetere - fino al punto da inserirla perfino negli organigrammi ufficiali delle Camere di commercio». «Una laurea di quelle “per corrispondenza” - viene aggiunto - ma pur sempre buona per spalancare certe porte che contano, non meno dell'altro titolo di “Console di Malta”, di cui l'imprenditore si fregia».
La corazzata, che puo' contare sulla bellezza di un milione e duecentocinquantamila euro di capitale sociale, e' una societa' in nome collettivo e si chiama Gaffoil di Ferrara Assunta e C. Con uno scopo sociale come «commercio all'ingrosso di prodotti petroliferi e lubrificanti per autotrazione, di combustibili per riscaldamento» ed ampi depositi nel cuore della zona archeologica di Santa Maria Capua Vetere, la societa' e' amministrata dallo stesso Tommaso Di Rosa, classe 1946, residente a Curti, paese poco distante. Con lui la sorella Giuseppina Di Rosa ed un giovane esponente della famiglia, il «rag. Di Rosa Vincenzo», trentanovenne.
Dieci anni fa piovono sulla Gaffoil le cataratte del finanziamento pubblico. Che in questo caso si chiamano Patto territoriale. E' il 21 ottobre del 2000 quando l'Unione industriali casertana annuncia che «dal ministero del Bilancio e' stato emesso il settimo decreto di finanziamento. A beneficiarne la Gaffoil, che produrra' combustibile per eco-diesel estratto dall'olio di colza e dal girasole. Il progetto, presentato dall'industriale petrolifero di Santa Maria Capua Vetere Tommaso Di Rosa, prevede un finanziamento di circa otto miliardi di lire a fondo perduto».
E giu' fiumi di denaro, ville, una barca leggendaria (la “Carla III”) ed auto di lusso, per una famiglia il cui leader - a quanto viene riferito nella zona - riesce solo con qualche difficolta' ad esprimersi correttamente in italiano. Ma cio' e' bastato qualche anno fa all'allora numero uno della Camera di Commercio Caserta, Gustavo Ascione, per traghettare il “dott.” nel salotto buono dell'imprenditoria locale. Il passo successivo e' stato, nel 2009, l'ingresso nella giunta di Confindustria: tanto che oggi lui, Tommaso Di Rosa, viene considerato tra gli artefici del futuribile aeroporto casertano, fortemente sponsorizzato dalla compagine locale della sigla guidata a livello nazionale da Emma Marcegaglia.
L'esperienza nel settore edile, quella c'e'. La Diormas, che fa capo a Di Rosa, ha costruito per esempio uno dei centri commerciali piu' grossi della Campania, il Decumano Shopping Center di Vitulazio, nell'alto casertano: 25mila metri quadrati coperti piu' 15mila di parcheggi.
Fondata nel 2003, 700mila euro in dote, Diormas srl e' affidata, da luglio dello scorso anno, al presidente del cda Francescopaolo Ventriglia, cinquant'anni, da Santa Maria Capua Vetere. Nell'organigramma lo stesso Tommaso Di Rosa e il socio Giovanni Battista Orsi, sammaritano anche lui, classe 1973. Altro grosso costruttore locale, Orsi, presente anche in Copim, Acanto Costruzioni, Ogieffe, Immobiliare Orsi e Immobiliare Mara.

IN MARE APERTO

Ma l'incontro, uno di quelli “che cambiano la vita”, sarebbe avvenuto nell'estate del 2009 e in mare aperto. La storia circola in ambienti politici del casertano e merita di essere raccontata. Durante una delle consuete battute di pesca subacquea, lo scorso anno Gianfranco Fini sarebbe rimasto in panne col suo “Acqua e Sale”, presumibilmente al largo dell'Argentario. «Fortuna che al seguito - viene aggiunto - c'era la “Carla III” di Tommaso Di Rosa, che in quattro e quattr'otto provvide ad accogliere il presidente e famiglia sul suo lussuoso yacht e a rimorchiare quello del presidente al riparo nel porto piu' vicino». Sarebbe stata suggellata laggiu', in mezzo al mare, una grande amicizia carica di positivi presagi. Non sappiamo se si tratti di un fatto realmente accaduto o solo di una leggenda metropolitana. Cio' che invece trova conferma negli ambienti imprenditoriali e' lo sprint impresso recentemente alle attivita' della Gaffoil grazie a nuove, positive intese di Tommaso Di Rosa con l'Eni di Paolo Scaroni.
Davvero una insperata coincidenza. Perche' questo accade proprio quando un certo feeling tra il potente ad di Eni, Scaroni, e i circoli di Fare Futuro, trovano nel cane a sei zampe del colosso petrolifero italiano un formidabile sponsor, che occhieggia fin dalle pagine web della nuova formazione politica. Tanto da spingere i commentatori politici ad ipotizzare che uno dei finanziatori di Fini, Bocchino e C., sia proprio il gruppo guidato da Scaroni. Invece come stiamo vedendo i soldi probabilmente, quelli grossi, potrebbero arrivare anche da altri “benefattori”, magari via Caserta.
E cosi' torniamo a Di Rosa. Perche' mentre Gaffoil va a tutto gas, sul fronte mattonaro si accresce la partnership per la costruzione di nuovi shopping center fra le societa' di “mister Gaffoil” e quelle della famiglia di Domenico Zinzi. Negli anni in cui il politico Udc scalava le vette della pubblica amministrazione (oggi supportato dai benevoli auspici di Bocchino e Cesa), sua moglie, la bresciana Giovanna Bellandi, si occupava infatti del business di famiglia. Che si chiama in primis Villa Fiorita spa, l'accorsata casa nel comune di Capua da 80 posti letto, che dal 2005 si e' trasferita in un'ampia sede sulla statale Appia. Accanto alla madre, negli organigrammi societari, c'e' il figlio Gianpiero Zinzi, 27 anni, oggi impegnato in politica come commissario regionale dell'Udc Campania. E' invece ricercatrice universitaria l'altra figlia, Maddalena, quest'estate convolata a nozze con Alessandro Avecone, strettamemnte imparentato con i Cappello, altri storici democristiani del casertano. Inutile precisare che il fratello dello sposo, Giuseppe Avecone, era stato candidato alla Provincia nella lista “Zinzi presidente”...

FINI E DELFINI

Ma sara' cosi'? Davvero - come pensano in tanti nel suo collegio elettorale - Italo Bocchino, forte delle alleanze a Casal di Principe attraverso Antonio Schiavone, e del supporto di un fedelissimo come Tommaso Di Rosa, e' stato il vero artefice della nascita di Futuro e Liberta', potendo contare su un solido “tesoretto” di voti e risorse finanziarie? Qualcosa la dice un altro “duro e puro” del nuovo partito, Carmelo Briguglio, secondo il quale Generazione Italia, il movimento prodromico a Fli, e' «nato da un'intuizione di Italo».
Classe 1956, giornalista, Briguglio ha il suo feudo elettorale nella provincia di Messina ed in particolare nel paese natio Furci Siculo, poco piu' di tremila anime arroccate su un lembo di Sicilia che dalla costa ionica si spinge fin dentro l'entroterra. Su tre sedi, a Taormina, Palermo ed Alcamo, e' dispiegata invece la macchina elettorale del finiano doc Briguglio. Si tratta del Cufti, Consorzio Universitario per la Formazione Turistica Internazionale, che eroga corsi di formazione ed e' diretto da sua moglie Fina Maltese, al tempo stesso impegnata come consigliera di parita' in un ente pubblico: prima era la Provincia di Trapani, ora quella di Messina.
La polemica, non sul doppio incarico, ma sulla pioggia di finanziamenti dell'assemblea regionale siciliana per corsi di formazione fantasma, era esplosa ad aprile di quest'anno quando l'assessore Mario Centorrino del Pd aveva firmato il decreto di spesa: via libera a 300 milioni di euro come finanziamento ad una miriade di enti formativi per i tirocini di work experience. 274 mila sono andati al Cufti di Fina e Carmelo Briguglio, che organizzeranno corsi per diventare chef. Scrive Il Giornale che nel 2008 lo stesso ente “brigugliano” aveva ricevuto, per analoghi scopi, fondi regionali da 1 milione e 700mila euro.
Non e' un mistero per nessuno, a questo punto, che l'alleanza tra finiani e Mpa di Raffaele Lombardo poggia su solide basi. E che la tanto contestata “ammucchiata” all'Ars Sicilia e' un ulteriore laboratorio dello scenario che, almeno nelle intenzioni dei finiani, ci aspetta.
Ex assessore al lavoro della stessa Regione, Briguglio vede prosperare altri corsi di formazione professionale anche nella sua Furci (della quale peraltro era stato sindaco missino in anni lontani). Stavolta si tratta del Consorzio Universitario Jonico, per molti l'ennesimo carrozzone, del quale qualche tempo fa si era perfino ventilata la chiusura. Oggi invece sul sito del Comune c'e' il bando per il rinnovo dei vertici.
Salgono intanto, nella politica locale, gli appetiti intorno ad un'altra creatura consortile, il Consorzio Messina-Etna, finalizzato a valorizzare l'appeal turistico dell'area. Percio', mentre il Cufti va a sedere nel consiglio d'amministrazione del Consorzio, con il 33 per cento delle quote, sono sempre piu' numerosi in zona i pidiellini con una gran voglia di Futuro e Liberta'. Fra le new entry delle ultime settimane si registra quella di Giovanni Todaro, contestualmente candidato sindaco per le prossime amministrative a Santa Teresa di Riva, un comune dell'area interessata alla promozione turistica. «In Fli - sibila un ex collega di partito - Todaro trova ad attenderlo il cognato, Giuseppe Garufi, che aveva lasciato la poltrona di assessore a Santa Teresa qualche mese fa, giusto in tempo per entrare nel cda del Consorzio Taormina-Etna».

LA FORZA DELL'IDEAZIONE

Che il progetto di un mensile capace di coniugare pensiero ed azione fosse forte, nessuno lo mette in dubbio. Peccato pero' che l'operazione meglio riuscita sia stata quella di lanciare nell'agone politico alcuni giornalisti che altrimenti sarebbero rimasti magari a fare la gavetta, come tanti.
Siamo passati ad Adolfo Urso, viceministro delle attivita' produttive nel governo Berlusconi, dimessosi dopo la fuoriuscita dall'esecutivo dei finiani. E' una storia, la sua, che passa appunto per Ideazione, il mensile degli anni novanta fondato da Domenico Mennitti. Doveva essere, nelle intenzioni, il think tank della Destra sociale, poi fini' nelle mani di Sergio De Gregorio. La storia era stata raccontata dalla Voce in un'inchiesta di giugno 2006, quando il neo-dipietrista De Gregorio si accingeva a varcare da senatore i portoni di Palazzo Madama per la prima volta. Soci di De Gregorio e di Mennitti nella editrice di Ideazione erano, fra gli altri, berlusconiani purosangue come Ennio Doris di Mediolanum ed altri due assicuratori, Alessandro Rasini e Giorgio Vigano'. Il primo, figlio di quel Carlo Rasini fondatore della banca omonima, che fece la fortuna economica del Cavaliere nei primi anni della sua esclalation.
Urso, rautiano della prima ora insieme agli amici Mauro Mazza, attuale vertice Rai, e a Gennaro Malgieri, diventa una firma storica di Ideazione. Dopo gli esordi come collaboratore del Secolo d'Italia, passa al Roma, oggi nelle mani di Italo Bocchino, ma che all'epoca era appena stato rilevato dal foggiano Pasquale Casillo, imprenditore nel settore del grano. Anche dell'antico legame fra Mennitti e Casillo si era occupata la Voce, in un articolo di luglio 1994. Una storiaccia. Perche' Mennitti, fino ad allora astro nascente di Forza Italia, quell'anno era stato emarginato dal partito a causa d'un giro di cambiali protestate per circa un miliardo e mezzo di vecchie lire, il tutto documentato alla Camera di Commercio di Brindisi, la sua citta'. I titoli erano stati emessi nel periodo dal ‘91 al ‘93 dallo stesso Mennitti ma anche dalla moglie Maria Luisa Gualtieri, assicuratrice della Lloyd International. Sempre nel ‘91, appena rileva il Roma, Casillo lo affida alla direzione dell'amico Domenico Minniti, suo vice diventa Adolfo Urso. Il quale ci restera' per i primi due anni. Nel ‘94 viene eletto in parlamento con AN, all'indomani della svolta di Fiuggi.
A Ideazione resta Sergio De Gregorio, che sara' costretto a lasciare nel ‘95, dopo il clamore dell'intervista al pentito Tommaso Buscetta, organizzata “a sorpresa” su una nave da crociera. Risultato: «il pentito viene delegittimato dallo scandalo - scriveva Marco Travaglio sull'Unita' - e ai giudici di Palermo non dira' piu' una parola su Berlusconi e Marcello Dell'Utri».
Come e' andata a finire? Oggi De Gregorio - sul cui capo pendono ancora le indagini della Dda partenopea con accuse di riciclaggio e favoreggiamento della camorra - resta dietro le quinte degli scenari aperti ai Caraibi dal suo pupillo Valterino Lavitola, e intanto continua a sedere in commissione Difesa al senato.
Mennitti, risolte le grane giudiziarie, rientrato ben presto in Forza Italia (che nel ‘99 lo fa eleggere a Strasburgo), e' dal 2004 sindaco di Brindisi. La signora Gualtieri, intanto, firma una rubrica di gastronomia sul periodico on line Ideazione.com.
Quanto a Urso, dioscuro di Gianfranco Fini insieme a Italo Bocchino, ha fondato e dirige Charta Minuta, pensatoio ufficiale dei finiani. Diretto, forse non a caso, da Barbara Mennitti, figlia del sindaco di Brindisi e socia di Ideazione fin dalla prima ora.


PAROLA D'ORDINE: ABBATTERE MARONI

Piace a 33.317 persone. Non e' una qualsiasi pagina di Facebook, ma quella fondata a Giugliano in Campania e denominata “Malavita napoletana”. A leggerla, c'e' da trasecolare (a patto che si riesca a comprendere l'idioma animalesco puntualmente trascritto come se fosse una lingua straniera). «Fa'ci'tv gli' amici a tie'mp e pa'c, ca' ponn srvi' a tie'mp e we'rr» (“fatevi gli amici in tempo di pace perche' possono servirvi in tempo di guerra” con foto di un bambino che prende la mira e spara). «E quand passamm accaffor ogniun e nu'i ten nu cumbagn o nu frat carcrat e vulessm arapi' kelli cancell p v fa vni' cu nui ri'nd a na nuttata e liberta'» (“Quando passiamo qua fuori ognuno di noi ha un compagno o un fratello carcerato e vorremmo aprire quei cancelli per farli venire con noi a trascorrere una notte di liberta'”, con foto del carcere di Poggioreale).
Fanno male, queste pagine del social network. Fanno malissimo a tutti ma soprattutto a chi, come la maggior parte dei napoletani, soffre l'urto osceno della camorra nella vita quotidiana, nel traffico, negli uffici pubblici, nel racket che nessuno punisce, negli appalti assegnati “regolarmente” alle ditte malavitose dalle amministrazioni locali.
Ma c'e' qualcuno che negli ultimi due anni alle organizzazioni criminali ha fatto male per davvero. Incurante delle alleanze politiche fra il suo partito e quello di chi sostiene gente come Nicola Cosentino (o il suo alter ego Luigi Cesaro, presidente della Provincia di Napoli), Roberto Maroni ha inflitto alle mafie colpi durissimi, minandone alle fondamenta economiche la potenza. 18 miliardi di euro e' l'ammontare dei beni sequestrati alle cosche da quando a capo del Viminale c'e' lui, il leghista ex comunista che dai suoi territori ha ricevuto il mandato di impedire che tutto il nord venisse devastato dal cancro delle mafie meridionali. C'e' riuscito in parte, visti i due soli anni a disposizione e soprattutto considerando la penetrazione spinta dei capitali di Cosa Nostra, camorra e ‘ndrangheta nell'intera economia dei Paesi occidentali.
«Il fatturato annuo delle mafie italiane, valutato da organismi diversi - spiega Elio Veltri, autore col pm Antonio Laudati di “Mafia Pulita” - si aggira all'incirca sui 170-180 miliardi di euro. Un rapporto del Censis realizzato per la Commissione Parlamentare Antimafia rileva in quattro regioni meridionali (Sicilia, Calabria, Campania e Calabria) presenza mafiosa in 610 comuni con 13 milioni di abitanti, pari al 22% della popolazione italiana e al 77% della popolazione delle quattro regioni. A questo 22% corrispondono il 14,6% del Pil nazionale, il 12,4% dei depositi bancari ed il 7,8% degli impieghi».
Se dunque i boss, Casalesi in testa, hanno oggi il massimo interesse ad un governo “di scopo” o di “armistizio”, basta che sia senza Maroni (e questo sposta gli equilibri verso altri gruppi politici), non meno partecipi del progetto politico di “mandare a casa il ministro dell'Interno” potrebbero essere proprio gli esponenti massimi di quel capitalismo bancario che sulle immense liquidita' derivanti da proventi mafiosi, depositate su conti correnti e caveau in Italia e all'estero, regge le sue sorti presenti e future.

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